L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

martedì 19 agosto 2008

Istanbul e lo stile

SCENA:
Io, in camera mia, apro l'armadietto per mettere a posto il fumetto appena letto. Quindi prendo la maniglia d'ottone, avvitata nel legno e stretta dall'altra parte da un bullone e una rondella, e tiro. Dentro non c'è molto spazio, quindi opto per provare a vedere nell'altro armadietto, ma questo non lo chiudo: lo lascio aperto ad angolo retto, perfetto. Mi volto anch'io nell'altra direzione (sportello aperto precisamente alle mie spalle) e faccio per fare un passo, ma mi accorgo di un'ostacolo: a terra c'è un attrezzo elettrico di quelli che fanno luce e, all'interno o appesi all'esterno, fanno strage di falene e a volte anche di zanzare. E' disposto esattamente di fronte a me, ed è grosso come una valigia. Lo scavalco. Mi giro nuovamente verso la parete degli armadietti e apro il secondo armadietto. La situazione qui è peggio del primo: quindi chiudo l'armadietto e torno a collocare il fumetto nel primo armadietto.
...
...e puntualmente inciampo nella valigia antizanzare, cado in avanti perfettamente rigido e, spettacolarmente dritto per dritto, colpisco in piena fronte l'avanzo di vite, il bullone e la rondella che fissano la maniglia del primo armadietto, da me disposta così inusualmente a perpendicolo.
Nonostante il dolore cane, per terra mi rotolavo dalle risate.
Non potevo fare a meno di pensare a un Buster Keaton cacciatore che piazza la trappola e poi cade nella sua rete...

A parte l'ennesima botta in fronte testé rimediata sullo spigolo della ringhiera mentre innaffiavo le piante (l'altro incidente risale a giorni fa, avevo un ficozzo che sembrava un corno caprino...) la mia testa m'impone attenzione anche per altri motivi.
Non solo perché devo (in ordine sparso):
- scrivere la sceneggiatura del mio corto e darmi da fare per realizzarlo (specie dopo aver visto - li sto catalogando ora - un mare di corti degli allievi di qui dentro di un decennio a questa parte)
- scrivere il resoconto dell'ultima partita che abbiamo giocato ai "fantasmi giapponesi"
- scrivere un articolo per la rivista Tangram che ci pubblicherà, per l'appunto, una serie di scritti sulle nostre esperienze di gioco
- scrivere qualcosa di più corposo per una piccola autoproduzione elishiana da vendere a Lucca
- scrivere questi "maledetti" tarocchi; cioè inventare un mazzo per Elish, immaginandolo nel dettaglio, ma primariamente scrivere un micro-manualetto d'uso su come leggere i tarocchi di Elish anche nella nostra vita reale
- scrivere il copione (finirlo, visto che è incompleto) ch'è stato parzialmente utilizzato nello spettacolo di quest'anno del nostro laboratorio di teatro
- scrivere quanto più possibile su quel personaggio (e la sua spalla) della Commedia dell'Arte che mi è venuto in mente tornando da Avignone (perché sembra avere ottime potenzialità)
- scrivere e continuare a scrivere per il mio romanzo.

Il resto lo tralascio che la lista è già lunga quanto basta.
Ma proprio a questo proposito, mi è d'uopo dire che non solo le botte in testa e le cose da fare con la testa sono motivo per me di preoccupazione riguardo alla stessa.
Eh già.
E' che ce n'è una terza! (Fonte di preoccupazione)
Vedete, ci abita la gente. Dentro.
Sì, sì, sennò come si spiega che Istanbul, un paio di post fa, mi commentasse così
"Bello tornare da queste parti. Lo stile non si impara!"?
Cos'è, telepatia? Tele-blog-ia?
Eh no! Se poi ci si mette anche Gabriele - che guarda caso nei miei link a fondo pagina è indicato come "mio fratello nello stile" - chiede un post a gran voce proprio mentre scrivo, la cosa puzza!!! Anzi, preoccupa!
Infatti, nel caso, quanto dovrei far pagare d'affitto? Poco o tanto, visto che la casa è vuota?
^__^

Il fatto è che è davvero un po' che medito di scrivere un post sullo stile, e che proprio a cavallo di questi due interventi m'ero deciso.

Tutto è cominciato con una frase che reiteratamente Furio Scarpelli m'ha detto:
"Devi trovare il tuo stile"
Ha continuato ad echeggiarmi nella mente fino a prendere il suono e la consistenza de:
"Usa la forza, Luke!"
Persino la voce sembrava diventata quella di Alec Guinness. O meglio, del suo doppiatore.

Ma cos'è lo stile?
Anzi, ma che strabicazzo è lo stile, come sono arrivato a chiedermi.
La prima cosa che m'è venuta in mente, e da cui ho ricavato poi una possibile lettura, è la moda.
Stile, stilista.
Lo stilista ha stile? Cos'è lo stile di uno stilista? Perché si usa proprio quel termine per un creatore di moda?
Improvvisamente mi sono ricordato delle discussioni che avevo fatto a proposito del dialetto come un abito, la lingua come un vestito.
...Paolino, lo so che ti senti solo nella triste Francia, e ci manchi, ma questo NON era un doppio senso. No, inutile che ti giustifichi, non è nemmeno l'origine dell'espressione "cappottino di saliva".
Lo stile, è qualcosa che si può indossare.
Come mai? Se io scrivo e Furio mi dice che devo trovare il mio stile, vuol dire che, per così dire, adesso come adesso sto usando lo stile di altri. Come un dialetto. Posso impararne le inflessioni, indossarlo. Viverlo.
E a questo punto, non può che venirmi in mente Gabriele: in particolare la frase che gli rivolse Alessandro
"Tu fai venì voja de fumà. Ma no de fumà e basta, fai venì voja de fumà come fumi te!"
L'ho resa più romanesca di quanto era, ma il senso è tutto lì. Ovvero, fai venire voglia di copiare il tuo stile (di fumare). Anzi, d'indossare il tuo stile come fai te. Il portamento, la classe.
Infatti, se quel link si chiama 'mio fratello nello stile', non è affatto perché i nostri stili siano paragonabili, anzi. E' proprio perché quello è un aspetto che appartiene ed identifica Gabriele: quell'uomo ha classe.
E qui si pone un dilemma.
Lui, lo stile, ce l'ha. Non lo indossa. Non indossa quello di altri e non indossa il suo. Semplicemente, lo è. E stiamo parlando di stile come 'avere classe'; dopo c'interrogheremo se esiste una distanza con lo stile 'stilistico' e, se fossero diversi, nella scrittura.
Se dovessi chiedergli di definire il suo 'stile', dieci a uno che andrebbe in panico. Saprebbe farti degli esempi, ma definirlo no.
Perché è qualcosa d'intimamente connaturato a sé: s'è formato negli anni, in famiglia, coi miti, con la buona educazione e la personale inclinazione a conoscere il bon ton. Io che da piccolo ruttavo mangiando i panini al campeggio non potrei mai avere il suo stile.
Ciò non toglie che io abbia il mio.
Se lo stile è dunque un abito, che si vive più che indossarlo solo quando è il proprio, se ne può concludere che lo stile è, semplicemente, un modo d'essere. Lo stilista, per contro, pur essendo un creatore di abiti non è un creatore di stili: è bensì colui che lavora con gli stili. Che ci gioca, dando loro forma e permettendo a chi un simile abito lo sente 'nel suo stile' di possedere qualcosa che gli si adatta!
Ed ecco che cominciano a piacermi un po' di più le sfilate.
Certo, la moda spesso e volentieri è intesa più come 'aderire a uno stile' piuttosto che esaltare il proprio, ma questo è un problema di chi compra, non di chi fa.
Dunque, abbiamo detto che lo stile è un modo di essere.
Due più due uguale Scarpelli mi ha detto "sii te stesso".
Se quando mi trovo con Gabriele a volte mi viene in mente Humphrey Bogart, che ben mi rappresenta il concetto di "avere classe", mentre a me, al massimo, mi può venire in mente Rocco Papaleo, per restare in paragoni cinematografici, questo non vuol dire che io non abbia il mio stile. Altro discorso è trovarlo.

Istanbul dice che lo stile non s'impara.
Siamo sicuri?
Non è forse proprio imparando - in generale - che si forma il nostro stile?
Non è proprio da coloro che si prende a modello che nasce l'esigenza di comportarsi (o meno) in un certo modo? Il nostro modo di essere non è forse quello che deriva da come stiamo vivendo?
Certo, nel dire che lo stile non s'impara c'è l'assoluta verità del fatto che non esistono (o non dovrebbero esistere o quantomeno essere definiti tali) dei maestri di stile.
Se lo stile è un 'abito' personale, nessuno al di là di te stesso può insegnartelo. Possono però insegnarti a trovarlo.
Tutti abbiamo una concezione comune di 'stile'. Nessuno riuscirebbe a definirlo bene: persino il dizionario, quando dice
"Particolare modo dell'espressione letteraria o artistica, proprio di un autore, di un'epoca, di una tradizione"
oppure
"Il particolare modo di essere e di comportarsi, di esercitare un'attività sportiva o d'altro genere"
deve fare riferimento ad ambiti, essere vago, racchiudere 'personale' in 'particolare'.
C'è uno stile nello sport, uno nella moda, uno in letteratura... Uno nel bon ton.
Non è affatto detto che coincidano.
Eppure, tutti hanno la stessa radice: il modo d'essere personale in un ambito da tutti condiviso.

Ecco, quindi, cosa mi diceva Scarpelli.
Qualcosa di meno del "trova te stesso" (che presuppone il "cerca te stesso", lavoro spesse volte inconcludente, ma utilissimo) e qualcosa di più del "sii te stesso", che prevede solo un'affermazione partendo da una presa d'atto.
Un "lasciati essere", forse.
Perché se Gabriele ha stile senza indossarsi il proprio, ma - appunto - lasciando che sia, allo stesso modo, narrativamente parlando, devo cercare e trovare la scrittura che, al momento della stessa, mi dia esattamente quella sensazione.
Lascia che sia.

Il ragionamento non è concluso, ma è certamente a buon punto.
Mi auguro che ciascuno di voi, dopo aver letto questo post, si conceda il lusso di permettersi cinque minuti di riflessione. Per lasciare che il proprio stile, sia.


GrimFang

lunedì 18 agosto 2008

Il mio primo telecinema

Et voilà, sono nella SFIDA.
Come credo di avervi accennato, sono stato eliminato dal trofeo RiLL: nessuno dei miei tre racconti ce l'ha fatta. Peccato. Sarò sfiorato per sempre dal pensiero che quello che non ho mandato, il quarto, potesse essere invece scelto...
Adesso staremo a vedere per quel che riguarda la SFIDA: i racconti sono stati ultimati in fretta e furia e non sono stati mandati nella loro stesura definitiva (che dovrei stampare e spedire in questi giorni, comunque). Solo se saranno selezionati potrò rimetterci mano. Per questo la vedo un po' male pure qua; ma non ho proprio avuto tempo di farli bene, tra Farnese, Avignone, Cly, il portatile rotto, internet che non funziona, i casini in ufficio...

Già, i casini in ufficio.
Ieri ho fatto il mio primo telecinema, ovvero l'operazione di passaggio da supporto pellicola a supporto video. Intendiamoci: col termine si indica, generalizzando, qualsiasi operazione coinvolga le apparecchiature in quella stanza, quindi non ho affatto messo le mani sulla pellicola, bensì mi sono limitato a duplicare due dvd inserendo in uno il logo della Fondazione e nell'altro il timecode (il contatore con quei numeretti che corrono sotto all'immagine e indicano fotogrammi, secondi, minuti e ore in cui ci si trova). Che c'entra coi casini in ufficio?
Beh, che si tratti di un casino dovrebbe essere intuibile dal fatto che io non dovrei proprio occuparmi di questo, non essendo un tecnico addetto. Io di quelle macchine, al di là del minimo intuito, non capisco nulla. Ma, se me ne sono occupato io, ci sarà un perché...
La più grossa cazzata del mio quadriennale impiego presso la Fondazione, l'ho fatta venerdì 8 agosto.
A dire il vero, dovrei farla risalire a tutta la settimana prima, da quando sono tornato in ufficio dopo Cly, il 5, e mi son trovato gli appunti sulle cose da fare messi in bella vista dal collega, partito per le ferie.
Sopra di essi, spiccava in bella vista una circostanziata richiesta di telecinema per la Cinémathéque Française, da effettuarsi entro il 18 agosto. Il fatto che fosse circostanziata, mi levava qualsiasi appiglio cui appellarmi nel caso l'avessi dimenticata, come puntualmente ho fatto il venerdì.
Infatti, non avevo minimamente tenuto conto che, dei due tecnici, uno era già in ferie fino a settembre, e l'altro ci andava l'8, appunto. Quando me ne sono reso conto, l'8 mattina, l'altro tecnico, Loredana, era già impegnata a lavorare su delle urgenze. Impossibile rimediare alla cazzata.
Passata buona parte della mattinata a macerarmi sul mio essere un topo in trappola nella mia stessa cazzata, scrivevo e spedivo una mail - in copia conoscenza a tutta la mia dirigenza - in cui ammettevo la cazzata e me ne assumevo la responsabilità.
Ehm...
...
...e usavo dei toni, diciamo così, un po' "melodrammatici".

Devo prendere l'abitudine a contare fino a cento e rileggere con calma quello che scrivo.

Fatto sta che, subito dopo aver premuto invio, mi chiama il tecnico già in ferie - un caso, voleva sincerarsi che fosse tutto a posto - e, saputo dell'inghippo, si offriva di guidarmi passo passo via cellulare, lunedì mattina. Cioè ieri.
E siccome quando uno fa le cazzate è bene che rimedi, ero addirittura orgoglioso di poterci mettere una pezza!
Quindi esco dall'ufficio, vado a pranzo e...
E becco quelle della Diffusione Culturale (dirigenti e non) cioè coloro che avevano fatto quella richiesta, che mi guardano e ghignano.
"Così, ti sei cosparso il capo di cenere?" - sghignazzano.
Non so, forse sono arrossito, ma ho indicato il cranio rasato e ho ribattuto
"Magari ricrescono!"
Ecco come, ieri, mi sono messo di buzzo buono a collegare cavi, scovare chiavi, accendere e spegnere macchine e interruttori e rifare un lavoro due volte perché il collega s'era scordato di dirmi una cosa a inizio lavorazione...
^__^

Ma torniamo ai racconti.
Stamparli e spedirli è sicuramente una priorità. Uno dei due, MASADA, sicuramente lo rifinisco prima di stamparlo; l'altro, dovrebbe essere riscritto daccapo, e non lo posso fare.
Ma le altre priorità, già si sono accumulate.
Ho un corto da scrivere e da tirare fuori dal limbo: L'Angelo e il Diavolo.
Ho un copione di teatro da finire, specie dopo esser tornato da Avignone: La favola degli Zanni e dell'Untore.
Ho un romanzo ancora senza titolo da terminare. Un romanzo che si porta dentro tutto quello che di profondo mi ha cambiato negli ultimi anni.
Ho un "articolo" da scrivere per la prossima pubblicazione di Elish - niente di che, si tratta di riflessioni su di un ciclo di avventure che abbiamo giocato partendo da un progetto di Gabriele su "storie di fantasmi giapponesi a Roma", che diventerà un albetto spillato, di bassa qualità.
Ho un vero e proprio "mappazzone" da scrivere sui Tarocchi di Elish, e sul loro metodo di lettura, inventando dal nulla i complessi Tarocchi degli Astromaghi. Anche per questo sto leggendo "La via dei tarocchi" di Jodorowsky.
E sicuramente, giochi da tavolo a parte, c'è altro che non assomma alla mia mente in quest'istante. Compresa la partita da organizzare per il Digia che parte e si trasferisce per mesi a Parigi.
Non c'è che dire, è ora di darsi da fare.


GrimFang

domenica 17 agosto 2008

Jan Dix

"Le nostre paure hanno forme più sofisticate, sono diventate indecifrabili.
Ogni cultura produce le proprie immagini. Ma le angosce e le paure non sono certo scomparse. Per di più, noi abbiamo perso l'arte di controllarle. Nelle culture arcaiche ci sono sempre dei contrappesi alla paura... sono depositi di esperienza che meriterebbero molto più rispetto.
"

Questa riflessione è fresca fresca di lettura su di un nuovo fumetto Bonelli, Jan Dix.
Non entro nel merito del fumetto, anche perché sono usciti solo due numeri ed è un po' presto per giudicare; dico solo che il primo numero - forse perché tocca il mio dipinto preferito, "La ragazza con turbante [o ragazza con l'orecchino di perla]" del Vermeer - non mi ha fatto questa grande impressione.
Quello di cui volevo discutere è proprio il merito di questa riflessione, nel fumetto legata alla forza simbolica di alcune figure nelle culture arcaiche (in questo caso il giaguaro per gli yanomami) e a come esse siano percepite presso le nostre culture - oramai svuotate della loro valenza e ridotte ad altro simbolo, quello della rappresentanza etnica.
Così, se gli yanomami nel 'raffigurare' il giaguaro in realtà non lo rappresentano, ma lo evocano, noi in un loro disegno di giaguaro cogliamo solo i segni del legame artistico-religioso che quel popolo ha verso tale animale.
Ma nella frase citata all'inizio c'è molto di più.
Si parla di paura.
Qualcosa che ci tocca molto da vicino, per come s'insinua e s'impadronisce delle nostre vite. Qualcosa di trasversale - pur nelle sue molte declinazioni - a tutte le culture, a tutti i popoli in tutte le epoche.
Noi ci siamo allontanati dalla nostra dimensione simbolica: non rappresentiamo più direttamente la nostra paura e la forza che essa possiede per riuscire ad esorcizzarla. Essa rimane nascosta, e subdola s'impadronisce dei meandri della nostra complessa vita sociale: diventa ansia, attacchi di panico, ma anche più modestamente paura di volare, paura degli spazi angusti, o più classicamente, paura di morire o diventare pazzi.
Inibisce.
E ci riesce proprio perché "indecifrabile".
Se per gli yanomami il giaguaro è la morte, ed il legame è bello diretto perché se te ne trovi uno di fronte nella foresta sono cazzi tuoi, noi non abbiamo più simili figure immediatamente riconoscibili. La nostra paura della morte si fa più indecifrabile, si coniuga in rivoli dai mille aspetti, e ci chiede di affrontarli tutti, uno per uno. E la missione si fa impossibile, come tagliare le teste dell'idra, che come le tagli ne rispunta una; e da idra a sette teste diventa a nove, e poi a dieci... E pure se il corpo è uno, e uno solo, noi siamo così centrati nel focalizzare le teste che esse ci sembrano mille, imbattibili.
Se questo accade, è perché "ogni cultura ha le sue immagini". E se questo è vero, è vero che noi viviamo in un proliferare d'immagini - non a caso la nostra è definita come società delle immagini - e che ciascuna di esse porta appresso la sua paura: paura di non esser belli, di non esser ricchi, di non essere importanti.
Ma non è questo l'importante di quella citazione.
La parte importante è il senso di "aver perso l'arte di controllarle". E credo proprio che il termine 'arte' non sia usato a caso.
Definire una paura è controllarla.
Darle un viso, un nome, raf-figurarla è imporre il proprio dominio sull'immagine e su ciò che rappresenta, impossessarsene. Io dipingo il giaguaro e così impedisco che lui s'impossessi di me, tramite la paura che m'incute. Non è, badate bene, 'controllo la mia paura'.
Per chiarire questo concetto, la rappresentazione yanomami di un giaguaro è tutta un'altra cosa da Dario Argento che fa cinema sui propri incubi. Ci va vicino, forse, ma non si tratta di un controllo esercitato su se stessi, sulle proprie reazioni, bensì sulla fonte delle proprie preoccupazioni. Tatuandomi le macchie del giaguaro, disegnando la bestia, facendo qualsiasi rito di appropriazione simbolica di ciò che mi spaventa, io annullo in me la paura, alla radice - non effettuo alcun controllo. Controllo implica una mente razionale e una cultura occidentale.
Lì invece, io faccio mio, almeno in parte, il mistero del giaguaro. Il suo potere su di me.
Non divento un giaguaro, ma ne partecipo. Continuerò ad aver paura di morire divorato da un giaguaro, ma non morirò per questa paura.
I contrappesi delle culture arcaiche, quelli che noi abbiamo scordato, sono le memorie, le esperienze, di quelle culture: ogni paura di giaguaro genera anche rispetto del giaguaro. Genera la percezione della naturale necessità del giaguaro e dell'esistenza della paura di esso. Il contrappeso, è la tranquillità insita nell'ordine naturale delle cose.
Noi, abbiamo perso di vista proprio quest'ordine, lungo la strada che ci separa dal dare il giusto peso allo 'stato naturale' delle nostre paure.
Arte, dunque.
In un'accezione che si separa dal nostro 'sterile' concetto di rappresentazione estetica e si pone a mezza strada, più verso il concetto di produzione artigianale. Perché è con fare artigiano che si produce comunque una rappresentazione del reale, sì, ma con potenza intenzionale e simbolica tale da essere essa stessa realtà rappresentabile. La forza (comunicativa, informativa, evocativa, eccetera) contenuta in una singola scheggia di legno lavorato per simili fini contiene più concetto di qualsiasi opera occidentale, soffocata nella mediazione prima intellettuale e poi espressiva. L'oggetto yanomami (o chi per loro) è, nella sua immediatezza.
Esso rappresenta, nell'unico senso originale della parola.
Ed è tutto in questo rappresentare il suo ruolo artistico di controllo.
Senza mediazioni, è questo l'importante.
Se io riuscissi a rappresentare - senza impormi il come, il quando, problemi estetici e quant'altro - così, d'impulso, ciò che mi angustia, riuscirei in modo quasi catartico ad impadronirmene; e se si trattasse di un timore esterno potrei tenerlo stretto nel pugno per riuscire a gestirlo, mentre se si trattasse di qualcosa d'interno che mi spaventa potrei espellerlo da me, bruciarlo ed estinguerlo.
Quindi, qualsiasi cosa stiate facendo adesso, compite il vostro gesto d'arte: afferrate quello che avete intorno, qualsiasi cosa v'ispiri il gesto artistico; concentratevi sulla vostra paura, la prima testa dell'idra che vi viene in mente e non pensate - agite e basta!
Modellate la vostra paura, in poco tempo, prima che il vostro cervello capisca e vi ordini come farlo! SMETTETE DI LEGGERE!!!

Avete fatto?
Bene.
Ora potete guardarla in faccia, la vostra paura.
Eccola lì, la testa dell'idra.
Adesso sta a voi. Se avete pensato a qualcosa che dovete gestire, controllare, tenere a comando, tenete il vostro oggetto d'arte con voi. Mettetelo in una tasca, appendetevelo al collo, stringetelo in pugno ogni volta che vi dovrete confrontare con l'idra.
Se invece è qualcosa da espellere, da rifiutare, da cancellare e lasciare a dissolversi alle vostre spalle, dategli fuoco, distruggetelo, fatene briciole e cenere.
E nel caso in cui fosse entrambi, magari sotto aspetti diversi, date un peso a ciascuna istanza: valutatene quanta parte è qualcosa da gestire e quanta invece è cosa da rimuovere in voi. Quindi spezzatelo, e agite con le parti rispettive come indicato sopra.
E quando scoprirete che funziona, per favore, non venitemi a dire che sono un mago.


GrimFang

giovedì 7 agosto 2008

Dovrei

Decisamente ne dovrei scrivere di cose.
Dovrei parlarvi di Farnese, di avignone, di Cly. Dovrei dirvi della tipa sulla metro che si leccava le labbra solo quando era sicura che guardavo, e sfiorava sensualmente il palo di metallo detto 'apposito sostegno', la quale mi ha fatto capire che io sono un MINCHIONE con tutte le maiuscole e che non ho la più pallida idea di cosa si aspetti una donna dopo che ha mandato simili messaggi ben poco equivocabili. E' finita che quando sono sceso ha abbassato gli occhiali da sole per fissarmi negli occhi, ed io ho sentito su di me il peso della patente di COGLIONE DOC.
Dovrei raccontarvi di Farnese in cui per tre giorni dovevo fare il cartomante medievale: leggere i tarocchi (quelli di Elish) e trovare le vite precedenti. Dei tre tavolini (uno sulla strada di passaggio, uno sull'angolo tra la strada ed il vicolo, il terzo alla fine del vicolo, sotto la "Madonna del Buon Consiglio") a me è toccato il terzo: per due giorni non è venuto nessuno da me, a parte un singolo signore che poi tra l'altro ha anche sparso la voce sullo scoprire le vite precedenti. Ma quando la domenica Erika se n'è andata e siamo rimasti solo io e Federicone - ed io mi sono spostato al tavolino sulla strada - ho avuto la giornata piena, tra tarocchi e soprattutto vite precedenti. Tra cui un maxi-gruppo di ragazzi e ragazze sui diciott'anni, che praticamente m'hanno monopolizzato la giornata.
La prima era incredibilmente torda: era così stupida che io stesso stentavo a crederci. Eppure dall'aspetto non sembrava. Ha cominciato lei perché l'hanno messa in mezzo, ed ha fatto da apripista. Poi ce n'era una che era monomaniaca di Gianna Nannini, ma ha fatto un sacco di domande interessanti. Era molto carina. E ancora un altro paio di ragazze, e poi si siede questa, pure caruccia, e che a un certo punto, tra le domande (è un gioco che si fa ponendo delle domande la cui risposta può essere un "sì") chiede:
"Facevo la prostituta? Scopavo?"
Io le chiarisco che 'scopavo', se le fosse venuto un "sì" avrebbe anche potuto significare che faceva la donna delle pulizie; e lei serafica chiede
"Facevo tanto sesso?"
E le esce 'sì'. Al che i suoi amici ridono, rimarcando il fatto che "figurati se non usciva sì".
A braccio, le sue domande a raffica seguenti sono state di questo genere:
"Scopavo bene?"
"Facevo le pompe?"
"Ho mai scopato coi vecchi?"
Il sottoscritto ha perso l'uso reale della favella fino a fine serata, e le parole hanno continuato a uscire per forza d'inerzia.
Dovrei raccontarvi che a Farnese sono rimasto un intero pomeriggio/sera da solo al tavolo perché Federicone è andato a fare lo spettacolo, dove ha ingoiato un po' di petrolio durante il mangiafuoco, s'è fatto prendere dal panico e s'è fatto portare all'ospedale. Di come poi per una settimana abbia sudato oltre i limiti umani ed abbia avuto cagotto continuo.
Dovrei raccontarvi di come a Farnese, l'ultima notte utile (quella di sabato) Federichino e Gabriele abbiano tirato su il cortometraggio che vi ho appena postato, girato in una delle case in cui ci hanno ospitato.
Dovrei raccontarvi dei cornetti caldi sulla piazza di notte, e dei gelati che io non ho preso e che Alessia, studentessa di scenografia, ha detto essere uno dei motivi per cui lei va a Farnese.
Dovrei raccontarvi della casa in cui dormivamo io, Cianna e Momo, che aveva la cucina e una piscina di cui abbiamo abbondantemente usufruito.
Dovrei raccontarvi del mio arrivo a Farnese con Momo, quando guardando dei giullari da lontano dico
"Quelli forse sono i nostri"
poi guardo meglio e ne vedo uno giocolare con le palline e faccio
"No, non è dei nostri, troppo bravo"
per poi scoprire che invece era proprio Cianna.
Dovrei raccontarvi di Massimiliano il nano, il figlio di Serenella, con cui ho condiviso tutti e tre i viaggi e che è pestifero, adorabile e insopportabile al tempo stesso, col peso di tutti e due gli anni che porta. Di come chiamasse spessissimo "Ico, ico!", di come si svegliasse di soprassalto pretendendo sua mamma per poi chiedere insistentemente "Ciucci!" o addirittura "Voglio quella" riferendosi alla tetta materna. Di come ogni volta che faceva un pasticcio - tipo infilare le mani nello scappamento del camper, come ha fatto a Cly, alla domanda "Che hai fatto?!" rispondesse subito "Niente", per poi cercare di scappar via senza dare nell'occhio come fosse Bart Simpson. Di come fosse assolutamente impossibile fargli entrare in capoccia che se la mamma sta guidando NON PUO' CAGARSELO neanche di striscio (gli ho anche spiegato che rischiavamo di morire tutti, ma lui niente, capriccio e "Ciucci!"), di avere rispetto per le cose degli altri, del fatto che non può sempre averla vinta lui (come in effetti è stato, a parte qualche sonoro scapaccione e qualche bonaria 'punizione' da me e Gab che lo pigliavamo per i piedi e lo tenevamo a testa in giù). Di come fosse in 'combo' con Alessandro, di due anni più grande di lui, che è venuto con la mamma sia a Farnese che a Cly, che invece è un bimbo molto più posato ma forse un pelo più 'represso' perché molto obbediente alla mamma.
Dovrei raccontarvi di come la mamma di Alessandro, Anna dai capelli rossi, sia un pezzo di femmina strepitoso; del discorso su pornografia e fantasie sessuali che abbiamo avuto a Farnese, del test dei colori che abbiamo fatto in viaggio per Cly, da cui è emerso che voleva fuggire dal tran-tran quotidiano e che aveva bisogno di passione; di suo figlio che mi prende come adulto di riferimento; di lei che mi definisce "profondo e sensibile" e poi imbrocca il mio ascendente e il mio segno zodiacale come mai nessuno è riuscito prima; di come alla fine sia chiaro che è troppo forte il senso della famiglia in lei, ed il rispetto di questo senso in me.
Dovrei raccontarvi del viaggio massacrante in camper fino a Vetralla e poi di lì in macchina fino a Roma: partenza da Cly alle 5 di mattina, arrivo a casa alle 20e30.
Dovrei raccontarvi di Valentina che a Ludika s'è fratturata il naso, prima era cascata col motorino, dopo ha avuto altri cacchi e tornando da Avignone le s'è infiammato il tendine, per cui a Cly era zoppa.
Dovrei raccontarvi della mia prima volta in Val d'Aosta, di com'è fatta Cly, delle casette dai tetti di pietra levigata e dall'aspetto di case di gnomo, del sole pazzesco che menava come un fabbro fino al pomeriggio quando s'alzava un vento fresco, fortissimo. Della passeggiata in notturna da cacarsi sotto, della riunione in camper fino a tardissimo il sabato e la domenica mattina il nano che si sveglia alle sette e manda in vacca il riposo di tutti. Del pannolino vuoto che non era vuoto, dello spettacolo infiorettato che ci dovrebbe rendere tutti orgogliosi, del drago Morrigan più terribile che si sia mai visto, della parola usata un po' a cazzo da Gabriele, del serpente Lalla...
E infine dovrei raccontarvi di Avignone. La splendida, magnifica Avignone.
Dovrei.

...ma mica lo so se ce la faccio!
^___^


GrimFang

mercoledì 6 agosto 2008