L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

venerdì 28 maggio 2010

Non recriminerò su questi dieci euro

E' simpatico passare una giornata lavorativa a combattere con la migrazione dati.
Ovviamente, l'ironia si spreca.
La cosa più snervante in fondo è anche la più divertente: assistere (e partecipare) ai dialoghi tra il tecnico informatico e la responsabile della banca dati. Perché se uno si astrae un attimo dalla discussione, sembra che uno parli un dialetto e l'altro uno simile ma diverso, col risultato che usano gli stessi termini in modo diverso e ci vogliono dieci minuti buoni per spiegarsi su ogni argomento. Trovandosi poi sostanzialmente d'accordo.
E' l'impalpabile distanza fra il teorico e il pratico: tra la forma e la sostanza.
Per chiarire con un esempio, il tecnico aveva rimandato un punto in discussione che poi s'è trovato davanti come codice: se hai la possibilità di correggere subito ne approfitti, no? Lei pensava che si rimettesse in discussione il punto, e giù da capo a dodici.
Se poi osservi la mole di lavoro che ti si ammassa

Tutto prende una piega ancora più ironica - e amara, purtroppo - se entra un tuo collega a farti vedere nero su bianco come il posto su cui poggi il culo e da cui la tua vita economica dipende improvvisamente non sia più sicuro. Proprio ora che avevi un contratto triennale.
Col quale, a quanto pare, puoi pulirti il cosiddetto.
Mamma Stato non taglia i fondi. Li cancella.
Così.
O si diventa un ente del tutto privato, e in qualche modo si trovano i fondi, o ciao a tutti, si chiude baracca e burattini e tutti a casa.
Per primi quelli a progetto.
Anzi, per primi quelli in sostituzione di maternità, appena gli scade il contratto. Figurati se glielo rinnovano in altra forma.
Ed io, per i mesi, magari gli anni, in cui resterò nella videoteca, perderò Valentina, nonostante tutte le carte false - e ne ho fatte parecchie - per tenermela come collega.
Ne dico una per tutte: visto che s'è laureata a Bologna con una tesi sui documentari di un certo fondo, e noi abbiamo proprio quel fondo da inventariare, avevo suggerito che, quando possibile, lei fosse mandata a occuparsene. Così ce la mandavo verso la fine del contratto e davo un input in più per farglielo rinnovare.
E il direttore generale aveva approvato.
Ma lui... eh, lo sapeva, il gran paraculo.
Ecco perché da un mese girava voce che avrebbe mollato per andarsene a L'Aquila.
Finalmente sappiamo. Che paraculo.
A L'Aquila, poi: dove in questo momento il governo ha le mani legate e figurati se taglia i fondi a una zona terremotata da rilanciare.
Che paraculo.
I topi se ne vanno quando la barca affonda.

Eppure non riesco a odiarlo, c'è quasi una grossa stima, anzi.
Perché in fondo il dg, per quanto intrallazzino, a volte dispotico e sordo, è uno che lavora. E' uno che mi ha sempre dato l'idea magari di una non ottimale integrità morale (comunque ben al di sopra di molti altri casi che sento), ma di sicuro piglio decisionale e dedizione all'azienda. Salvo alzare i tacchi quando la situazione sembra compromessa - cosa che non è affatto detta.
Comunque, staremo a vedere, e quel che sarà sarà.

Eppure, non ha inciso tanto sull'umore.
Magari, più tardi, mentre tornavo a casa dopo aver recuperato il telefonino dall'assistenza, se mia madre mi chiama per dirmi che la Casa del Cinema resta chiusa in memoria di Furio, e scopro che lei si trova alla messa in suffragio a un mese dalla scomparsa... Alla quale non m'ha invitato perché s'è scordata... Ecco, magari lì ci resto male.
Anche se pure lei, fra nipotini e rapporti tesi con mia sorella e papà che non sta tanto bene, insomma... ci sta che se ne sia dimenticata. E visto il carattere ci sta anche che non si scusi.
E magari ci sta anche anche un pizzico di gelosia per l'affetto che porto a Cora, la moglie di Furio.

Ad ogni modo, uscendo dall'ufficio dopo averci scaric... ehm, depositato le due bitte di cartapesta vinte a San Cleto, ero in uno stato d'animo particolare.
Non so... forse leggero è il termine che ci si avvicina di più.
Avevo l'umore come il cielo, per chi l'ha visto su Roma oggi alle cinque. Un grigino velato d'azzurro e di giallo polvere del deserto. Non pesante.
Ho preso la Tuscolana - ero in macchina per via delle bitte di cui mi dovevo liberare, e di un certo qual ritardo con cui mi sono svegliato stamattina (ho dormito quattro ore perché mi sono visto in streaming "Fired up!", un filmetto, ma completamente pieno di belle figliole) - e ho fatto inversione per tornare sulla Togliatti. E mentre ero al semaforo davanti al centro commerciale l'ho visto.
Era a bordo strada, timido, con un cartello che chiedeva le elemosina per lui. Sopra c'era scritto che aveva due bambini. Come se ne vedono tanti.
No.
Non come se ne vedono tanti.
Grazie al cielo come lui se ne vedono pochi.
Cerco, in queste righe, di descrivervi un attimo. Un lungo, prezioso istante.
Io che sto in macchina, che lo vedo, che lo riconosco come mendicante e un movimento di ciglia dopo lo disconosco come tale. Lo vedo vestito pulito, curato, decente, nella sua camicia jeans blu. Lo vedo mentre cammina, pianissimo, lungo il marciapiede erboso a bordo carreggiata. Ne memorizzo lo sguardo, che guarda verso le macchine, ma al tempo stesso cerca di evitare la gente. Lo vedo accennare in un minuscolo movimento delle mani che reggono quel cartello la sua richiesta muta d'aiuto. Lo vedo tentennare, chinare il capo, chiedersi impacciato come si fa.
Non lo vedo girare aggressivo o disperato tra le macchine come fanno in tanti. Non lo vedo imporre la sua presenza. Non lo vedo accusarti silenziosamente di non concedere qualche spiccio a qualcuno che più o meno ne ha bisogno.
Vedo un uomo che lotta per ingoiare non il suo orgoglio. Ma la sua dignità.
Vedo un uomo che cerca d'imparare la sua ultima spiaggia, cercando l'equilibrio tra la propria storia, il suo passato, il suo presente, la sua vita, la sua famiglia, la sua sfortuna e quella cosa là. Quello che non avrebbe mai pensato di trovarsi costretto a fare.
Apro il cassetto dove tengo gli spicci per i lavavetri, prendo i venti centesimi che ci sono dentro e glieli porgo. Tendo il braccio verso di lui, che mi vede, guarda la strada, non sa se può attraversare per avvicinarsi a me e prenderli. Poi viene, incerto, li prende e ringrazia.
Non li guarda, li mette via. E scompare dietro la mia vettura, lasciandomi con la consapevolezza, figlia di quell'istante, che venti centesimi non sono niente. Non servono a nessuno.
A una zingara che stava alla fermata Metro vicino casa dei miei ogni tanto, una volta ogni uno-due mesi, gli davo cinque euro, dicendomi che era come se le avessi dato dieci centesimi ogni giorno. E m'infastidì quando più o meno cominciò a marciarci.
Ma oggi, non c'era nulla di tutto questo. Lui, almeno per ora, non avrebbe marciato su nessun singolo centesimo guadagnato in questo modo. Per ogni bottone, sputo ricevuto, avrebbe detto grazie. Perché qualcosa, anche un mi dispiace è meglio di niente.
E a me scattava il verde, mentre improvvisamente quel due bambini sul cartello non restava l'anonima scritta vista cento volte per strappare qualche spiccio sulla cui verità ho smesso di interrogarmi da tempo perché non posso, ed è vero, farmi carico dei bisognosi del mondo, ma nemmeno di quelli che incontro; diventavano due bambini veri, a casa in attesa di un padre rimasto senza lavoro.
Una fabbrica che chiude, un'attività che sta andando male, una proprietà pignorata - e affanculo le responsabilità, che fosse colpa sua o meno non cambia.
E il traffico mi mandava già al successivo semaforo, mentre mi sentivo smarrito. Non per me, per lui.
Chi mi conosce sa che a volte sono molto in grado di mettermi nei panni altrui.
Tanto che qui adesso sto seduto a scrivere come un cretino, e mi tocca cancelare e riscrivere perché con le lacrime sbaglio a battere i tasti.
E più andavo avanti più mi sentivo già in colpa. Un mancato soccorso. Un mancato abbraccio.
Fin dal primo semaforo, il suo, avevo pensato di accostare, parcheggiare, tornare indietro e dargli cinque euro. Avevo anche controllato il portafogli per vedere se li avevo. Poi era scattato il verde. E non mi ero accostato.
Pensavo se dargli dieci o cinque euro, mi dicevo che se glieli davo e mi faceva una faccia come a dire "sono tanti" protestando perché mi faceva pena e lui non voleva pena, o al contrario se non voleva prenderli per cortesia, gli avrei detto che per me erano un cinema in meno, e lui ne avrebbe fatto un uso migliore.
Pensavo che avevo voglia di abbracciarlo, come ogni tanto mi è capitato di fare con perfetti sconosciuti che ne avevano bisogno. Come Maria Teresa, di cui nessuno di voi credo sappia, e che solo ora noto buffo sia omonima della ragazza che mi piace al momento. Pensavo che gli avrei detto "se non ci si aiuta fra esseri umani, cosa esistiamo a fare?".
In realtà pensavo solo che volevo aiutare. Disperatamente aiutarlo.
E se la macchina mi portava avanti, verso il negozio del cellulare che alle sei chiudeva, ed ero già parecchio in distanza, questa volta non potevo chiudere dicendomi "sarà per qualcun altro un'altra volta". Non potevo tirare dritto dicendomi hai risparmiato.
Perché sapevo che non me la sarei perdonata.

Ho sterzato al quarto, quinto incrocio, e sono tornato indietro.
Ho fatto manovra e gli sono ripassato davanti, stavolta vicino al marciapiede erboso.
Chissà se mi riconosce per quello di prima, mi sono chiesto, e l'ho sciacquato via dalla mente come un pensiero non importante. Il semaforo verde mi ha costretto a rallentare mentre lui già tornava indietro, ed è stato meglio così. Se ci penso adesso mi dico che sarebbe stato orribile, per me, farlo venire a prenderli da me: perché ero io che ero tornato da lui. Era aiuto, non elemosina.
E quando gli stretto la mano, passandogli i soldi, di tutte le frasi che avevo in mente, è uscito solo lo splendido, spontaneo "resisti", pronunciato come un sussurro.
"Grazie, grazie, grazie." - è stata la mia ricompensa.

E mentre andavo via, mi sono sorpreso come un bambino ad osservare quanto è bello il mondo.
In una giornata grigia, coperta, meravigliosa.
E, stupito, ho compreso che per smettere di vedere il brutto del mondo, basta toglierlo da sé.

Dunque, non recriminerò su questi dieci euro.
Perché non potevo impiegarli meglio.


GrimFang

Questa è la musica che ho ascoltato scrivendo. Meravigliosa e struggente. Rileggete ascoltandola, se volete piangere.
...anche voi.

mercoledì 26 maggio 2010

Al semaforo. A Roma.

Solo a Roma ti capita che, mentre cerchi un accendino in macchina, fermo al semaforo, il motorino davanti a te arretri passo passo per chiederti a sua volta da accendere.
No, non solo questo: che una volta che abbassi il finestrino per far accendere e fai notare che guarda caso lo stavi proprio cercando anche tu, il tuo interlocutore ti inviti a una festa.
Sì.
"Vieni al Capodanno Bangla? Friggono tutto!"
Dove? Dietro l'angolo.
"E' qui dietro! Friggono tutto."

Non credo di avere la capacità narrativa per descrivervi il tono di quei "friggono tutto".
Era qualcosa di pacato e immenso, vicino alla divinità.
Evocava immagini di mucche, madri, sorelle, palazzi, nuvole infilati nell'olio per uscirne preziosi, dorati e croccanti.
Era il tono di chi sottintende "Non riesco a dirtelo, nun pòi capì".
Ma non era lo strillone, il claim pubblicitario, il chiasso della festa di paese: era l'essenza della frittura come atto mistico rituale. Festa sì, ma celebrazione vera. Friggono tutto, te compreso se ci vai diventi parte di un rito collettivo a base di roba che ti sublima il fegato prima ancora di devastartelo. Puoi immaginarti la terribile sofferenza di un attimo nello spasmo di una colica devastante, immediatamente rimpiazzata dal Nirvana della non-essenza: il tuo fegato non c'è più, non c'è mai stato, e ti resta solo da godere in eterno di quel sapore, dell'essenza di fritto non solo sul tuo palato, ma nelle narici, tutto intorno a te.
Un bagno rituale nel Gange della frittura.
Un'abluzione battesimale.
Non era il tono apocalittico, definitivo. Non c'era da pentirsi o da segnarsi che la fine è vicina. Non c'era un'imposizione di colpa per un'eventuale assenza. Ma si capiva che perderlo, mancare a questa ascesa mistica su carta oleata era peccato. Né mortale, né veniale; peccato e basta, colorato d'innocenza - quella del non iniziato, dell'apprendista, del sinora mancato adepto del fritto.
Si comprendeva l'asserzione semplice e assoluta che si dovrebbe avere nel pronunciare le parole "io esisto". La promessa di gioia, cui il tuo libero arbitrio può abdicare o che, accettandola, può declinare in varie forme, compreso il mal di stomaco. Compreso il mese di cagotto successivo.
"Friggono tutto."

Purtroppo avevo le prove di teatro.
Ma il 25 maggio è una data da appuntare, da queste parti!
Corro a mangiare che scrivendo m'è scoppiata la fame atomica.
Buona vit-oops, frittura,


GrimFang

lunedì 24 maggio 2010

E tre! ^_^

Ho vinto il Quarto Festival di San Cleto. ^_^
Ormai mi hanno proibito di partecipare al prossimo: tre vittorie su quattro edizioni non permettono l'emergere di altri giovani talenti oltre me! ;)PPP

E sono tanto più contento quanto
a) c'era gente davvero brava
b) non m'ero preparato niente
c) ho vinto a furor di popolo #^_^# gh!

Ricapitolando, ho vinto il Primo Festival di San Cleto in coppia con Nunzio: lui faceva il beat-boxer ed io cantavo "Fight Da Faida" di Frankie-Hi NRG, compreso il testo in siciliano. Quella volta abbiamo davvero spaccato. Pezzo, deciso in cinque minuti fuori dal teatro proprio perché volevo fare qualcosa. La canzone la sapevo a memoria, e nemmeno sapevo che Nunzio facesse il beat-boxer (ed è pure bravo - certo, dopo aver sentito AlienDee dell'Anonima Armonisti tutto impallidisce).
Quell'anno vincemmo un paio di mutande (usate) in due.
Lo autografammo - c'è una foto che ci immortala con le mutande infilate una gamba ciascuno - e poi le spedimmo a Bali tramite Ygramul, come segno di scambio di civiltà...
Il Secondo Festival di San Cleto l'ho perso, e ci sono pure rimasto male, se non sbaglio. ^_^
Ma avevo portato una cosa sentita (nel senso di 'a cui tengo parecchio', non in senso acustico): "La pianta del tè" di Ivano Fossati. Però senza accompagnamento era suonata parecchio surreale.
Il Terzo Festival di San Cleto l'ho vinto con gli scalcagnatissimi compagni Gab, Renato e Federicone (siamo al minuto 2:14) cantando in clamorossissimo playback "Zuppa Romana" e battendo le bravissime e raccomandatissime Contesse Senza L'Oste, che portavano una riuscita versione di "Volta La Carta" di De André... Anche quello, manco le prove cinque minuti prima, giusto un minimo di - diciamo così - "vestiti eleganti".

Quest'anno, sabato era il compleanno di mamma (brutta rendersi conto che ne ha chiusi 71 quando pensavi che la cifra fosse sui 65...) e prima s'è folgorato il telefonino, su cui segnavo tutte le scadenze venture della mia vita... Già è stato un bordello ricordarsi quando dovevo andare dallo psicologo... Insomma, nulla mi rammentava del Festival, compreso il fatto che in ufficio il mio pc è senza rete come i funamboli bravi, solo che lui non è che è bravo è che il server ha un virus.
Come se al funambolo levassero la rete non perché se la cava da solo ma perché il direttore del circo ha l'influenza...
Comunque, niente rete uguale niente email, che mi tocca controllare dalla postazione della mia collega alla quale tutto funziona, invece. Ma, fato ha voluto che venerdì non la potessi leggere, in tutt'altre faccende affaccendato. Ovviamente, da casa la posso anche leggere, ma non ricordo nemmeno perché non l'ho fatto né venerdì né sabato, per cui del Festival di San Cleto l'ho letto - e rammentato - solo domenica stessa.
Neanche un minuto dopo Martina in chat di Gmail mi minacciava di morte se non andavo la sera.
E io mi schernivo, gomito qui, piede di là, specchi insaponati, che ok, sarei andato, ma non avevo preparato niente.
E così era: il pezzo che volevo cantare con Gab non ero nemmeno riuscito a farglielo sentire.
Quindi, che fare?
La mia mente - più che i miei occhi, visto che la valigetta era sotto al tavolo - è corsa al romanesco, allo spettacolo che ho fatto qualche anno fa. Potevo recitare qualche poesia, Pascarella, Trilussa... tanto non mi andava di cantare (e poi, non senza base! ^_-).
Avevo provato, nei giorni precedenti, a sentire Sergio se fosse stato mai (per miracolo) libero. Volevo cantare la canzone che ho scritto per lui e che lui ha musicato, e che potete ascoltare qui.
Fino ad adesso, che io sappia, è l'unica vera canzone che ho scritto (testo ovvio, sono negato per le musiche: una volta ho fatto sentire un tema che avevo trovato sul sassofono al mio maestro e lui mi rispose "Bello! ...è il tema dello spot Vidal" - quello coi cavalli che corrono, avete presente?).
Ma Sergio aveva da fare e non c'è nemmeno stato modo di provare... anche se gli sarebbe piaciuto. Ma prima o poi lo faccio, eh...
Comunque, non sapendo che fare e traccheggiando a cazzo col computer e con Facebook, alla fine s'è fatta ora di andare (in ritardo) e di prendere le due cose che potevo fare, se mi andava.

Prima ancora di arrivare, Marty mi smssa (troppo carino scriverlo così!) per invitarmi ad affrettare il passo: se doveva cominciare alle 21 e alle 21.15 mi mandano un simile messaggio vuol dire che ho tempo.
Però, arrivo, trovo parcheggio al volo e comincia.
Quest'anno, tra l'altro, non c'è - per ovvi motivi (ha lasciato il teatro) - Pape a far da presentatore, bensì la coppia Simoncione-Federicone. Chi li conosce può avere idea di cosa può essere stato, ma vi assicuro che è stato anche peggiore! ^_-

L'apertura infatti ha visto i due succitati presentarsi vestiti da soubrettes.
Ho dato per scontato che la sera non avrei dormito.
Poi, l'apertura vera e propria è stata affidata al buon Claudio Zilli, ormai abitué del Festival, e subito dopo dai Piselloni di Campagna, e quindi dall'ottimo Massimo Moi (poi ho anche comprato i cd di Zilli e Moi). Poi, fra le poesie con musica recitate da Gab e da Alessio e il primo finto video di provini stile X-Factor, m'è presa la fregola di partecipare anch'io e - in piena tradizione San Cleto - sono andato a farmi aggiungere alla lista dei contendenti allo sbaraglio.
I due vermi mi han detto che vedevano, ma già c'erano trenta interventi... poi sono rientrati in scena e hanno fatto
"E ora, un'esibizione a sorpresa! Pure per lui che si esibisce e non lo sa!" - e mi hanno chiamato sul palco.
Mentre bestemmiavo in bassa frequenza e tenevo a bada il panico che mi assale sempre, ho aperto la borsa ed ho afferrato il primo dei testi sottomano: se non mi avessero chiamato così, forse non avrei scelto quello, e non avrei vinto. Mi sono portato accanto a loro, poi c'è stato un ping-pong di location perché c'era poca luce e non riuscivo a leggere, quindi da sotto il faro bianco mi hanno spostato sotto al faro verde.
"Cosa porti?" - mi ha chiesto Simoncione.
"Leggerò una voce di Wikipedia." - ho risposto.
E ho letto questo.

E' la parte più divertente del mio spettacolo sul romanesco. Le poche - credo due - volte che l'ho messo in scena, il pubblico s'è sbellicato; e anche stavolta non ha fatto eccezione.
Come potete vedere, ho letto senza cambiare una virgola, limitandomi a dare la giusta interpretazione alle parti in dialetto romano, il mio dialetto.
Quindi, mi sono alzato soddisfatto e senza la minima pretesa di vincere, gustandomi tutto il resto del festival, dal gustosissimo musical su "La tempesta" di Shakespeare fatto dal laboratorio che l'ha messo in scena sul serio (Simoncione, Gabriele, Valentina, Alessio e Martina), al brano Tak Tak Tak in portoghese recitato da Vania, agli altri filmati video tra X-Factor provini improbabili e cortometraggi estemporanei girati a ferragosto e in inverno, alle nuove esibizioni di Moi, Zilli e Piselloni (che tra l'altro hanno fatto tutte rivisitazioni di De André), le diverse esecuzioni del buon Simone con brani di Dado (Gomiti sorridenti o qualcosa del genere) e di Manera (Piscina), fino alla votazione con applausometro tedesco nascosto sul retro e tradotto con carta e penna dai presentatori.
Devo ammettere che ora so quale emozione prova la finalista di Miss Italia. Beh, quale spunto di emozione può provare.
Quando dalla lista venivano chiamati i nomi per gli applausi e il mio tardava ad arrivare (essendomi aggiunto all'ultimo), e il pubblico innervosito a cominciato a chiamare il mio nome... E quando hanno fatto un vero e proprio boato. Quando ho visto Simone terzo e Moi secondo (che per me doveva essere primo) ed ho cominciato a pensare "Oddio, vuoi vedere che...". ^_^
Sono entrato in scena tra gli applausi e la tardiva disapprovazione di chi - come Martina - si rendeva conto che "Basta! Sempre lui! Venduti!" pur avendo contribuito all'applauso della mia vittoria.
Ed ho cominciato a temere per il premio.
Facevo bene.
Quest'anno ho portato a casa due ingombranti elementi di scenografia in cartapesta, ribattezzati "Sale&Pepe" per la forma: due grosse bitte dalla testa argentata, il corpo nero e la scritta CO2 su ciascuna... e giuro, davvero non so che farne.
Ma la soddisfazione per una gran serata, beh, quella non me la toglie nessuno! ^_-
La morale di questa storia, comunque, è che l'anno prossimo o sono fuori concorso o sono in giuria o sono bandito dalle esibizioni! E che, ovviamente, se voglio vincere a San Cleto non devo prepararmi niente, ma andare allo sbaraglio!
;)P
Vostro,


GrimFang

martedì 18 maggio 2010

Jamison

Ho avuto un coinquilino americano per un mese, e nemmeno ve l'ho detto.
Povero Jamison, qualcuno di voi lo ha anche intravisto un millesimo di secondo quando è tornato a casa, il giorno che stavamo finendo di giocare la mia stratosferica avventura.
Adesso se n'è tornato negli States, ma a settembre dovrebbe tornare; solo che non mi aveva detto che a settembre torna per due anni, il che potrebbe risultare problematico per quanto riguarda il suo alloggio qui da me, perché nel frattempo qui dovrebbe venirci Gab - che, tra l'altro, sta cominciando seriamente a trasferirsi! ^^
Questo weekend ha abitato ufficialmente qua.
Ad ogni modo, con Jamison ci siamo salutati con la promessa di portarlo finalmente a un concerto dell'Anonima, visto che quando glieli ho fatti sentire c'è andato a ròta. ^^
Specie quando ho specificato che ci sono un sacco di belle ragazze. Scherzo. Ma non troppo. =)P

La convivenza con Jamison è stata tranquillissima, ed ho incassato un sacco di complimenti per la qualità del mio inglese e l'appropriatezza del mio vocabolario - il che ovviamente mi fa un sacco piacere, anche perché ero convinto che ormai fosse irrimediabilmente arruginito.
Strano che per lui, però, fosse "amazing" il fatto che usassi parole come "incredible" o "session" (o giù di lì) che sono praticamente identiche all'italiano. Mi hanno spiegato che, probabilmente, è perché l'inglese non è una lingua latina, mentre quelle parole derivano da lì e per loro sono, diciamo così, un po' più difficili... Mah.
Ad ogni modo, la fluidità del mio accento è stata messa alla prova con successo.
Ora non ho più scuse per non andare a trovare Sara... ;)PPPPP

Certo, non è che io e Jamison si sia passato un sacco di tempo insieme: la mattina fuori casa appena sveglio, poi di ritorno quando lui era fuori, poi o uscivo io o lui...
I momenti in comune sono stati veramente tre o quattro in un mese, quando ci siamo fatti una solenne chiacchierata io con l'Averna (Degio, Degio, cosa m'hai attaccato...) e lui col whisky; o quando ci siamo fumati una sigaretta con chiacchiera - lui ha questo rito da quasi non fumatore, di fumarsene una sola in compagnia quando si trova in una città diversa; o ancora quando l'ho fatto giocare a Tokio Vite Precedenti, visto che avevo scoperto che il suo compleanno cade di 31 ottobre e che quel gioco è nato proprio una notte di Halloween...
E nessun problema di condivisione del frigo, visto che da quanto ho capito non ha praticamente mai mangiato a casa.

Davvero, quando ci siamo salutati, stavamo lì a chiederci come cavolo avesse fatto a passare così in fretta un mese. Ci sembrava di aver vissuto assieme per un paio di giorni. Una settimana al massimo.
Ma come si dice... quando qualcosa ti piace, il tempo vola.
Buona vita a tutti,


Grimfang