L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

mercoledì 28 marzo 2007

Witt The Chick !!!

Come promesso tempo fa, eccovi le strisce di Witt.
Datosi che non mi sono molto applicato a Stripcreator, di questi tempi, sto rapidamente esaurendo le vignette. Me ne sono rimaste un paio di serie, di cui alcune non molto carine. (ma le posterò ugualmente)
Mi è capitato, tra l'altro, di cercare di fissare almeno tre battute folgoranti che ho detto a lavoro, ma, a differenza di altri momenti della mia vita, per quanto brucianti fossero, le ho subito scordate...
Vabbé, pazienza, mi vendicherò in un momento d'ispirazione.
Per fare vignette decenti serve tanta ironia, molto entusiasmo ed almeno uno spunto divertente!
^__-









Detto questo, la prossima serie che verrà potrebbe essere il seguito di Guide For The Art...
Un abbraccio


GrimFang

lunedì 26 marzo 2007

BOMBA

Visto che ero troppo scombussolato per scrivere, stamattina, ho dovuto attendere un po’ per riuscire a calmarmi e a far smettere alle mie mani di tremare…
^__^

Il fatto è che mi si presenta – di botto, come sempre accade – la prospettiva di quella che, beh, è una delle famose ‘svolte’ nella vita.
Di che si tratta?
Presto detto, andare a vivere da solo. O meglio, in compagnia.
Abbandonare l’avito nido dei genitori per tuffarsi in quella massa scura e terribile che è la propria vita: indefinita e libera in quanto finalmente autogestita.
Ho sempre amato la parola autogestione, molto più di quell’altra, ‘occupazione’. Sarà perché la prima è un termine atto ad indicare un'azione di libera scelta responsabile, e in fondo 'delicatamente' impegnativa, mentre la seconda non a caso è usata soprattutto per indicare una seria attività lavorativa, anche se ai tempi di scuola era piuttosto sinonimo di libero cazzeggio. Certo: dormivi sui banchi e gestivi in toto il tuo ambiente liceale, e ti sembrava di possedere il massimo grado di libertà nelle scelte che riguardavano la tua vita. Appropriazione degli spazi, mutualità, solidarietà, turnazioni... ma nessuno in fondo percepiva che a quella maggiore libertà doveva per forza di cose corrispondere una responsabilità maggiore: a partire dalla pulizia della scuola, al dover cucinare, al servizio d’ordine…
Ah, bei tempi…
Io di occupazioni me ne son fatte circa tre, di autogestioni due.
Gran bel liceo, a quei tempi, il Mamiani.
Comunque, slittando via dai ricordi scolastici, torniamo a noi.

Mi hanno proposto di andare a stare in due, senza farmi pagare l’affitto, ma solo contribuendo alle spese di gestione (e già questo...). E me lo ha proposto una ragazza.
Eh, già.
Erica mi ha chiesto di andare a vivere con lei.
E mi sa che accetto.
Per otto mesi circa, andare a vivere da lei, nella sua casa galleggiante sul Tevere.

^___^

Boom, eh?
Il giovane Golden direbbe ‘ragazzi, roba da restarci secco’.
A me invece è preso il panico, e tuttora che scrivo – oggi è stata una bella giornata di sole, qui a Roma – ho le mani ghiacciate.
Otto mesi perché durante l’inverno è improponibile vivere là sopra; tanto che pure lei se ne torna a casa dai suoi. E per me, visto che si tratta di andarci intorno a metà aprile, non dovrebbe essere un gran problema, dato che penso che per allora papà si sia rimesso.
Quindi, intanto vedo per un mese come va.
Quello che temo, soprattutto, è il mio rapporto con il cibo: visto che, di solito, quando resto da solo mi nutro da schifo, temo tantissimo il ‘coccolontio de malnutritionae’ cioè il deperimento da mancanza di cibi sani. Il che si manifesta, per me, in debolezza, freddo e attacchi di squeraus.
Per carità, c’è sempre sua maestà il brodo caldo, che è una mano santa, però… ^_^
E poi, appunto, c’è la paura di stare male e non essere coccolato.
Diciamocelo, anche a trenta anni, non essendo mai vissuto seriamente fuori di casa, ogni volta che hai uno sturbo, un malessere o che sia, hai un appoggio su cui contare. Un supporto psicologico, anche un vaffanculo amorevole, quando il deliquio indotto da un trentasette e tre di troppo t’induce un po’ a drammatizzare… Ti senti filato. Insomma, non sei solo o almeno hai meno paura della solitudine.
Con questo non voglio dire che dell’andare a vivere con Erica mi spaventa la solitudine perché da lei sono distante: no, magari spesse volte non ci pigliamo, o faccio fatica a capirla (lei a me non so), ma sarebbe comunque un’esperienza interessante. Quello che voglio dire è che se una sera torno a casa emotivamente sconvolto per aver beccato Chiara e lei non c’è perché magari è a Milano o a lezione di piano io non ho nessuno cui appoggiarmi.
A casa, anche senza dire nulla, c’è la presenza confortante dei miei genitori.
È il sapere che ti puoi sentire anche male, tanto sarai soccorso. E questo, spesse volte nei periodi bui, è bastato a impedire l’insorgere – o quanto meno il sopraffarsi vittorioso – di quella orribile sensazione che è il principio della depressione. Una sorta di solitudine esistenziale… meglio, un pauroso senso di vuoto.

Sì, è soprattutto questo che temo.
Perché in fondo, per quanto possa essere attratto da Erica (e anche spaventato da questo), quello che si prospetta è sempre e comunque una relazione di coinquilinato. Con tutti i normali problemi che questo può comportare: lei recita e suona il piano, si dovrà pur esercitare e provare le parti. Io ho bisogno di un computer e una connessione, e lei dice che la possiamo scroccare ai vicini. Spero abbiano l’adsl… Anche io qualche volta dovrò provare le mie parti, e chissà, magari lì risulterò meno inibito che a casa, dove per provare lo spettacolo di Pascarella mormoravo tutto sottovoce, e solo quando i miei erano assenti potevo provare meglio l’espressione del testo… magari posso mettermi a provare i pois in salotto, o sul ponte. E nelle belle giornate fare colazione all’aperto, sul fiume, può essere una gran cosa. E poi la macchina la posso mettere sul bordo fiume, sperando che, col culo che ho, non me la travolga una piena. Insomma, sarà tutto da vedere. Gli orari, le compatibilità… e pensarne troppe adesso non sarebbe una cosa sana: anche se dovesse accadere, sarebbe ad aprile inoltrato, e bisogna comunque prima sentire i miei ed i suoi, e poi vedere bene… (mani avanti e testa fasciata, sì, lo so)
E poi il 27 parto per la Spagna.
Chissà, forse è questo accumulo di grosse novità che mi stressa.

Però - grazie a mamma - so già stirare. Non ho mai imparato a fare una lavatrice, ma un po' so cucinare. Insomma, le carte da giocare in una convivenza non mi mancano. Magari ricomincio a strimpellare un po' il sax. Di cose positive a venire, c'è la possibilità di averne a bizzeffe.
Ci sarà di sicuro da superare il test-prigione, ovvero se dopo un po' di tempo la convivenza 'forzata' non mi vada stretta.
L'unica cosa è che questo passo mi spaventa davvero.
Non è, come mi è capitato a dicembre per l'inchiesta-documentario, il caso in cui ti senti dentro ch'è l'occasione della tigre - o prendi o aspetta.
(da un detto zen, che vuole che la tigre, anche se ha fame, aspetti a scattare solo quando è sicura e determinata a cogliere la preda)
Quindi...

Ad ogni modo, domani mattina dovrebbero dimettere dall’ospedale papà e lo vado a prendere.
Poi vediamo in questi giorni come va, anche perché la mia macchinina mi dà problemi (la mia Bimba!) e sarebbe da portarla dall’elettrauto che conosce lui…
Dai, che si rimetteranno entrambi...
Um beso,


GrimFang

sabato 24 marzo 2007

A casa di Chiara

Sarebbe un titolo perfetto per un film, se non avessero già girato "A casa di Alice", che come storia non c'entra niente...
Beh, molti di voi sanno chi è la Chiara in questione; per quanto riguarda gli altri, mi sa che dovranno cercare di capirci qualcosa dal contesto, perché al momento non ho nessuna intenzione di mettermi a scrivere un papiello lungo quanto la Bibbia.
^__^

Quello che vi volevo brevemente (spero) dire, è quello che ho appena fatto e da cui sono tornato.

Sono andato a portare mamma all'ospedale - tra l'altro oggi pomeriggio pare //forse// che mio fratello possa passare a trovare papà, ergo mia mamma dovrà sbrigarsi a togliersi dalle scatole - e, grazie a dio, ho usato la mia macchinetta. Quella che ieri pomeriggio non ne ha voluto sapere di partire, costringendomi a prendere i mezzi e ad arrivare con un ritardo notevole a dare il cambio a mamma (che poi se n'era già andata).
Tra l'altro, ieri ho rivisto amici di famiglia che non vedevo veramente da tipo due decenni, perché poi s'erano persi i ponti... è la famiglia Benzi, di cui ho rivisto papà Renato, mamma Graziella e Carlotta, più il nuovo acquisto Luca, nipotino e figlio di Carlotta. Gli altri due, Edoardo e Cecilia, di lei fratelli, non c'erano perché, a quanto pare, una fa la hostess e vive a Venezia, e l'altro fa l'ingegnere aerospaziale a Parigi. Considerato che papà Renato era pilota, direi che la fissazione del volo è rimasta, in famiglia. Con loro c'eravamo persi da un bel po', eppure mi sono ricordato tutti i nomi - e un po' anche le facce, prima di averle riviste - e anche una scena indelebile: ad Alghero, dove adesso vivono i genitori, un'estate c'eravamo anche noi (ah, c'era anche un mitico catamarano, se non sbaglio) e loro ci avevano prestato casa mentre campeggiavano in roulotte. Beh, mi ricordo Carlotta che si affaccia sulla porta della roulotte - era più o meno mezzogiorno - dopo esserci appena entrata, molto accaldata. Si riaffaccia bianca come un cencio, reggendo in mano una bottiglia di vetro verde, di quelle dell'acqua minerale di una volta (ma quanti anni avevo io, tredici anni?? ^_^), alla quale s'era appena attaccata a garganella per lunghissimi secondi. Solo che non c'era acqua in quella bottiglia.
Lei, bianca come un cencio, voce vacillante fa:
"Ma che c'era, varecchina?"
No, era Fil'e Ferru, 90 gradi. E' stata un po' male, ma noi ci siamo sgarrati dalle risate.
Vabbé, la famiglia era lì perché, per un caso fortuito, anche Renato si doveva operare - s'è operato il giorno prima di mio padre - e quindi 1) i due degenti si son fatti compagnia a vicenda senza l'obbligo di rispettare orari di sorta e 2) i parenti si sono intrattenuti smaltendo abbondantemente l'ansia nelle chiacchiere.
Vedi mia madre, che nemmeno si è accorta che papà è stato sotto i ferri per oltre due ore.
^__^
Carlotta infatti faceva notare che potrebbe essere un'idea: se ti devi operare con un intervento programmato, fatti ricoverare dove c'è un amico che deve subire un'altra operazione, così si smaltisce tutto in due.
Certo, ti serve un amico che si debba operare.
Ma si può sempre pianificare assieme le cose! ^__^

Un particolare trash, gli impressionabili saltino il paragrafo.
Vi avevo detto che gli dovevano levare la cistifellea perché era diventata come un sacchetto di calcoli.
Sbagliavo. Il calcolo era principalmente UNO: un ovale di circa sette centimetri di lunghezza e tre-quattro di diametro massimo... una vera breccola, insomma.
Tant'è che gliel'hanno regalata in una scatolina e lui adesso se la tiene sul comodino, intenzionato a portarsela a casa, chissà, forse come trofeo, o come amuleto dello sciamano in grado di allontanare ogni altra consimile sfiga...
...mi sa che al posto suo farei lo stesso! ^__^

Comunque, dicevo, ho accompagnato mamma con la mia rediviva macchinetta, e, mentre tornavo, ho pensato qualcosa sulla morte, altrui; e sul concetto di assenza.
Mi è venuto spontaneo legarlo ad un'altra riflessione, nata tempo fa da una discussione con Erica. (della quale, temo, lei non abbia mai conosciuto la mia conclusione)
Si parlava, allora, della mutuale paura di impazzire. E si concedeva che, almeno per quanto ci riguardava, non era tanto il terrore di perdere il controllo, di perdere il dominio razionale sulle cose e sulla realtà... quanto piuttosto la paura dell'emarginazione, della marginalità sociale. Non si voleva finire, cioè, come quelle vecchie che parlano da sole in metropolitana, o quei tipi che hanno gli sbotti di rabbia improvvisa senza la minima - apparente - giustificazione.
I 'derivati da ansia sociale', intendendo con derivati qualcosa di simile agli scarti.
Già, insomma, qualcosa di molto simile a Chiara, in versione peggiore, ovviamente.
Ecco perché, da quella riflessione d'allora - in cui concludevo che in realtà non doveva trattarsi della paura di impazzire veramente, ma più di una paura diffusa della solitudine, mascherata da 'sintomi sociali' che portano a quello - mi stupivo oggi a trarne delle conclusioni, che prima non avevo preso in considerazione.
Prima fra tutte quella che, se mi spaventa così tanto la solitudine, come posso infliggerla ad altri come ho fatto per così tanto tempo con Chiara? Cavolo, lei era, è, non lo so, una auto-emarginata sociale a causa di problemi emotivo-mentali. Ed io, in fondo sì, sono stato un suo appiglio contro la solitudine. Buono, finché non mi sono dato - ma su questo non ci sono remore di sorta, ho fatto bene e lo rifarei, mors tua vita mea, sic transit gloria mundi, imperat. (non lo so, io non ho mai fatto latino! ^__^)
Però, pur continuando a dirle che le volevo bene, che le voglio bene, mentre mi do alla fuga gambe in spalla, sono stati sporadici i casi in cui, delle rare volte in cui ci vedevamo, io le donassi quell'abbraccio mirato, proprio diretto a scacciare la solitudine.
...quello che voglio anch'io, adesso.
Una cosa semplice, importante. Vitale. Il gesto fisico che va un pelo oltre le parole 'ti voglio bene' e che sta lì a sottolinearle, anzi, a renderle reali, a cementarle.
E quindi m'è venuta un'improvvisa, pazzesca voglia di andare da lei e darglielo!
Normale, no?
Se non fossero sette anni di fuga, di cui almeno quattro, credo, passati in analisi a causa sua, sarebbe perfettamente normale. Beh, sapete una cosa? Lo è comunque.
E' quello che è, un sentimento semplice.
Quindi ho diretto l'automobile verso casa sua e ho cominciato a pensare.
Se fosse giusto. Cosa mi tiravo dietro. Quanto il momento fosse appropriato, e quanto potesse darmi un motivo, un vantaggio, il ricovero in ospedale di papà (quanto potesse rendere l'occasione inusuale e impedire il riallacciarsi di una relazione continuativa - insomma ragazzi, io ancora sto bello confuso, mica l'ho capito bene cosa voglio, a parte il fatto che la desidero, con ogni centimetro della mia pelle). Insomma, più mi avvicinavo più salivano le tensioni e le paranoie; il che diventava un'incredibile serie di rutti e flatulenze, perché quando m'innervosisco ingoio un sacco d'aria.
Con meno paranoie del prevedibile arrivavo vicino alla sua casa, e più mi serviva tempo per pensare, più automaticamente sbagliavo strada. Allungavo, per pensare. Ma ero determinato, perché una voce, dentro di me, mi ricordava che con uno stimolo simile, così vivo, così positivo come il non far sentire solo qualcuno - e il non sentirti solo, egoista bastardo - se non fosse stato seguito sarebbe andato in peritonite da comportamento strunzo.
E io, coi senni di poi, c'ho già avuto tantissimo a che fare.
Quindi no, stasera non la reggo una crisi di coscienza lunga una quaresima quindi
Scendo, dalla macchina che avevo già parcheggiato da un po' - spaventando una passante che chiacchierava beata al telefono che pensava che fossi chissà che criminale che aveva puntato lei - e spengo il motore, che era un'altra cosa che poco mi sconfinferava, visto quanto avevo patito per accenderlo ieri (fallendo, mentre oggi era andata a culo e a colpi sul pedale del gas). Arrivo al campanello (come altre quattro volte su sette) e suono (come altre tre volte su quattro).
Non c'è o non risponde, come altre due volte su tre.
Quindi non l'ho incontrata, quell'abbraccio non gliel'ho dato e sono a posto con la mia coscienza.
Meglio di così...
Però un po' mi rode, che non c'era. Per una volta in cui ti fai tanto coraggio da arrivare fino a lì...
Ho anche insistito a lungo, visibilmente più sollevato, ho citofonato quattro volte. Attirando l'attenzione del nuovo cane che ha adottato, che era in giardino a sonnecchiare. E silenziosamente, cercavo di sentirmelo solidale, e di affidargli il messaggio di saluto, e quell'abbraccio, che non le sono riuscito a dare.

Chiunque m'avesse visto salutarlo con la mano e mormorare a mezza bocca da quattro metri e passa di distanza, m'avrebbe preso per pazzo.
Ma è quel tipo di pazzia che a me non mi dispiace. ^__-


GrimFang

giovedì 22 marzo 2007

Vuoto

Vuoto: privo del proprio contenuto […] privo di senso, di scopo, di contenuti. (dal dizionario De Mauro online)

Ecco come mi sento.

Papà – come preventivato da tempo – ieri è stato ricoverato per essere operato domani.
È un intervento “facile”, per quanto può esser facile subire un intervento a 73 anni. Si tratta dell’asportazione della cistifellea, che oramai a quanto pare gli è diventata un sacchettino di calcoli.
Adesso, è indubbia l’utilità di togliere un organo oramai diventato dannoso alla salute – ma poi, questa cavolo di cistifellea che funzione ha? Voglio dire, sembra che possano toglierla a tutti senza creare problemi… cos’è, un residuo vestigiale di quando eravamo primati o cosa? Insomma, me lo sono sempre chiesto, anche da molto prima dell’operazione di papà, ma se c’è ancora nel corpo, un motivo ci sarà, no? Il fatto è che la scienza medica non sa a che serve!!! Il che non significa necessariamente che ci si possa rinunciare senza danni, no? Vabbè – a parte l’utilità, anzi, la necessità dell’operazione, dicevo, quello che permane, come una patina poggiata sulle cose, è l’ansia che qualcosa possa andare male.
È del tutto naturale avere paura. Ce l’ho, non lo nascondo.
E forse ce l’ha anche lui, che cerca di considerarla normale amministrazione e s’incavola a sentire addosso l’ansia nostra, le nostre attenzioni. Lui si è presentato ieri all’ospedale, ce l’ho portato io, e non mi ha nemmeno fatto parcheggiare: è voluto entrare da solo. Tanto poi l’ho dovuto raggiungere subito dopo, perché – una volta a casa – ha chiamato per dire che si era scordato un sacco di cose.
E questo è un altro fatto: per carità, mio padre non è affatto pratico e spesso sta con la testa su di una nuvola, ma il fatto che si sia fatto un elenco di cose da portare e poi si sia scordato di portare cose basilari – come ad esempio un documento di riconoscimento per farsi identificare all’accettazione – per me è indizio di qualcosa. Tanto più che per l'accettazione non ci è nemmeno passato, è andato dritto verso la cosa che lo preoccupava di più: il posto letto.
Non lo sento sereno.
Sarà che sono empatico – soprattutto sul versante delle percezioni negative – ma riesco a immaginarmelo, coerentemente, pieno di panico di restare da solo. Così involontariamente si scorda la roba a casa, fa il burbero e protesta ma in fondo vuole un po' di attenzione. Minimizza l’operazione per convincere se stesso che è roba di routine – per quanto lui, ch’è medico, lo sa, sa che è davvero così – e non vuole avere attorno ansia e preoccupazione (praticamente il distillato di mia madre), ma il calore della famiglia.

Quello che mi devasta è percepire la sua assenza per casa.
È – inevitabilmente – fare i conti con la sua morte. Che comunque prima o poi avverrà, quindi è inutile stare a girarci intorno.
È scoprire che quello che ti aspettavi come un dolore forte, lacerante, che ti devasta e che devi fronteggiare piangendo e urlando non sarà affatto così. O almeno non solo.
Sarà uno strazio strisciante e continuo, ogni volta che resterai in casa sentendo in maniera assoluta qualcosa che manca. Straniero in casa propria. Ogni volta che resterai in silenzio, ad ascoltare una voce che non c’è più, ogni istante in cui ti ripeterai ‘mi manca’. Eccolo, il vuoto.
E sarà un vuoto peggiore ogni volta che, rimasto solo con un genitore, dovrò farci i conti ogni volta che guarderò in faccia chi rimane. Perché ogni volta che ci... ricostruiremo in due, non potremo fare a meno di ricordare il terzo, assente.
Trovarci dentro la normalità della vita, non è un compito da niente.
Ogni sguardo che ci daremo sarà uno sguardo pesante, perché il medesimo dolore che avremo dipinto sul volto sarà una vista indicibile da sopportare: il promemoria del nostro stesso dolore. Un dolore terribile, silente, ogni volta rinnovato.
Ci renderà più vicini, sicuro, o ci renderà intolleranti l'uno all'altro. Perché riconoscersi in due sarà ogni volta, per lungo tempo, provare una fitta d'assenza straziante.
Lascio fuori dal conto mia sorella e mio fratello perché, da tempo, hano una vita a sé. Mia sorella sta per diventare mamma, mio fratello ha tagliato i ponti coi miei da decenni.
Per cui, a meno che una volta nonni i miei non siano accettati in casa come badanti del nipotino (in fondo mia sorella è una donna in carriera), sarò io a dovermi occupare di loro.
Io, che al pensiero di un'esistenza simile rabbrividisco e sogno i miei spazi, la mia indipendenza, che desidero farmi una vita separata, trovarmi una donna, una casa, costruirmi la mia, di famiglia... e che al tempo stesso aborrisco l'idea, che mi ripugna profondamente, di lasciare da solo qualcuno, specialmente un mio genitore. Capirai, la solitudine è forse il mio più assoluto, sacro terrore...

Ecco perché non riesco ad andarlo a trovare volentieri. A dargli il mio appoggio come vorrei.
Ci ho provato, ma poi sono finito col dimostrare anch'io la mia debolezza emotiva: così come papà s'è scordato i documenti per l'accettazione, io mi sono scordato di riprendere delle cose che dovevo portare a casa.
Perché avevo fretta di levarmi da lì. Di andare via. Di non vederlo, e non pensarlo, in quel modo.
È la solita canzone di chi non riesce a dire, a dimostrare, a un’altra persona cara – carissima – che gli vuoe bene.

Non mi piace girare per gli ospedali, specie brutti come il Cristo Re.
Bui, coi corridoi pavimentati di marmo a colori scuri, anni settanta. Una atmosfera cupa, lugubre. Alle pareti, al posto dei quadri, ci stanno dei diagrammi sulle operazioni tumorali e l’incidenza dei tumori per casistiche (giuro!). mi sono calcolato col cellulare che tra il 1991 e il 1992 c’è stata una leggera flessione dei tumori al seno e un piccolo aumento dei tumori alla zona rettale. Che allegria, eh?
Gli ospedali dovrebbero essere posti allegri, dove la gente si senta bene: sono luoghi in cui ci si deve rimettere, non luoghi in cui ci si deve operare. Un ospedale cupo come una bara non ti mette poi dentro tutto l'entusiasmo per la vita che ti servirebbe…
Che invece è proprio quello che ci dovrebbe essere in un ospedale!
Mah…
Non mi piace girare per gli ospedali in generale.

Anche perché, visite mediche ed analisi a parte, mi viene in mente quando, al Celio, andammo a trovare nonna Maria. Nonna Maria era la mamma di papà.
Che in quell'occasione, tra l’altro, mollò lo scureggione più terrificante che abbia mai sentito in vita mia, roba da quindici-venti secondi, per poi giustificarsi dicendo “Scusate ragazzi, sono vecchia”.
Immaginatevi la scena, io, mio fratello e mia sorella che cercavamo di restare seri, vista anche la 'tragicità' della situazione, sarebbe morta pochi giorni dopo, mentre tutto il corpo lottava per sbottare a ridere… quasi quasi ricordo ancora le fitte ai polmoni e la rigidità della mascella! ^___^

Aaah, grazie al cielo nonna Maria mi ha rimesso di buon umore…
E adesso, mi viene in mente che le infermiere del reparto di papà sono mostruosamente carine.
Soprattutto la roscia che gli ha fatto l’elettrocardiogramma.
Magari mi riuscirà più facile andarlo a trovare.
Anzi, vi lascio che gli devo portare una cosa.
(cavolo, dopo un'ora e passa di metropolitana mi tocca anche uscire di corsa!)
^__^


GrimFang

[postilla a posteriori:
Cavolo quanto sfoga scrivere sul blog! ^____^
Ci sono andato ed è stato tranquillissimo, tanto che poi sono uscito di buonumore. Ho persino fermato una coppia per strada per chiedere se avevano... una sigaretta? Nooooo, una mentina, una liquerizia, una caramella... m'hanno dato una gomma e m'è andata anche bene.
PS: la roscetta non c'era! ^___-]

martedì 20 marzo 2007

tRiLLi di gioia

Alé, dopo tanto faticare, pagati i 20 euro per il Trofeo RiLL e stampato il primo racconto.
Non posso dirvi il titolo, purtroppo, né l'argomento, casomai qualcuno della giuria dovesse incappare in questo sito e ricollegarmi... in qualche modo... hey! Ma questo è un sito anonimo!!!

^____^

Da nessuna parte c'è il mio nome e cognome!
Chi lo conosce bene e sennò altrimenti! Quindi, visto che l'unico giurato che mi conosce NON conosce l'indirizzo di questo sito... anche se potrebbe derivare qualcosa da qualche link... mmhh... beh, se sei un giurato di RiLL e sei arrivato a leggere fino qui, per correttezza SMETTI e non procedere oltre!

Ok?

Ok!

^____^

Vabbé, cercherò di non dire troppo.
S'intitola "Mini Mart", e, nata l'idea, m'è uscito di getto.
21584 caratteri su un limite massimo di 21600 che, guarda caso, è proprio la cifra che esce contando anche l'indicazione - a margine - del numero dei caratteri utilizzati. ^__^
Considerato che fino alla fine non ho mai contato i caratteri, è perfetto.
Altra bella coincidenza è che, a quanto pare, in una precedente edizione, due autori avessero partecipato per scommessa uno con l'altro, e si siano piazzati primo e secondo. Visto che, prima di saperlo, avevo lanciato la medesima sfida alla Sara che campeggia nell'incipit del mio blog, la situazione - dal punto di vista scaramantico - è quantomeno beneaugurante.
Ma è soprattutto il fatto che questo mio racconto mi piace, mi piace, mi piace.

Ahem, mi sovviene che, almeno, dovrei dire due parole per spiegarvi di che sto parlando, ovvero, che cavolo sia Riflessi di Luce Lunare (RiLL).
Beh, è un trofeo di scrittura creativa fantastica. Libera: il tema, l'argomento o genere è tutto a totale discrezione del partecipante - che mantiene diritti sull'opera cedendo solo quelli relativi alla pubblicazione da parte del comitato promotore e basta (cioé li autorizzi a pubblicarti senza oneri, ma i diritti restano a te). Il che già da solo è indice di massima serietà.
Secondopoi, c'è una giuria di tutto rispetto.
Terza cosa, non si vince niente; o meglio, non si vincono soldi, ma la pubblicazione, sì. Sulla rivista-organo dell'associazione che bandisce il concorso e su altre riviste di settore con essa correlate. In più, c'è la gioia di venir premiati nell'ambito di LuccaComics - con ingresso di diritto gratuito per la cerimonia di premiazione. A me che tutti gli anni c'ho il passy questo non fa molta gola, ma lo fa essere premiati - nel caso - in mezzo agli amici che in tanti anni di manifestazione mi sono fatto.

Per chi di voi si fosse interessato alla cosa, ricordo che i termini per partecipare scadono il 10 aprile, quindi c'è ancora tempo...

Ma torniamo a "Mini Mart".
Nonostante innumerevoli partite di ruolo sul genere, di solito diventate vere e proprie saghe, più degne di romanzi che non di racconto breve, questa è la prima volta, davvero, in cui mi cimento nella scrittura horror.
Sissignori, horror.
Posso vantare almeno due/tre partite di ruolo, giocate con gruppi diversi, sul tema dell'Anticristo; almeno un paio (beh, oddio, forse molte di più) sul genere horror/fantascientifico alla Alien; e anche un altro po' sul genere gotico, che solo a tratti scivola nell'orrorifico (termine più adatto, direi). E soprattutto grazie allo splendore musicale di un gruppo come gli Shinjuku Thief - nome che alcuni tra voi lettori avranno letto con un brivido di piacere, sapendo di che si tratta (e non da ultimo perché si aspettano grandi partite dagli ultimi 3 album che ancora non ho utilizzato ^__-).
Ma questo racconto no, non batte temi che ho già bazzicato. Ne sviscera uno nuovo, con tutto il gusto dell'esplorazione di un campo ancora non contaminato.
Perché parla di zombi.
Ok, nel dirvelo ve l'ho in parte rovinato, dato che questa cosa degli zombi si comprende, a dire il vero, verso la fine. Ma me lo perdonerete... anche perché sennò vi tolgo il saluto!
^__^
La storia, è quanto di più classico e banale su di un tema che, di per sé, in fondo offre poche varianti. Per questo è molto più importante la scrittura, credo. (Ah, come me la canto e me la suono, come disse l'accordatore di pomi...)
"Mini Mart" è la storia di Marsh(all) e Stan(ley), e della loro amicizia. E più scrivevo, più avevo in testa "Mallrats", e i miei due protagonisti scalpitavano per chiamarsi Dante e Randal. Eppure resistevo: cercavo di muovermi sulla china che ancora regalava ai miei protagonisti una specialità originale, pur vicinissima alla citazione. Anche se poi non ho resistito a iscrivermi a MySpace pur di mandare un messaggio a Kevin Smith, in cui gli raccontavo più o meno la storia (l'ho fatto, giuro! Nessuna risposta in merito, ma mi ha aggiunto in automatico agli amici e mi ha dato il link al suo blog - carino, tra l'altro).
Così, nel mio racconto, Marsh e Stan passano una giornata - dal mattino al tramonto - che cambierà, in tutto o in parte le loro vite. Tra ricordi, emergenze, combattimenti e amicizie. Come in un buon film, o corto che si rispetti.
Non voglio dirvi altro perché - appena sarò autorizzato - credo a luglio, ho intenzione di postarlo qui (anche se sono sette pagine, devo scoprire come posso fare a postare un file da scaricare... qualcuno ha suggerimenti?), per farvelo leggere.

L'altro racconto, "Una favola di buona (eterna) notte" è più sul genere... uh... realistico/surreale.
Dico così perché ha due possibili piani di lettura: quello fantastico e quello fin troppo attuale.
Tutto ruota attorno a un'assenza, nel senso che è un personaggio di cui si parla ma non s'incontra mai: una splendida ragazza, dagli occhi neri. Tutti neri. ^__^
M'ispirò, all'epoca - questo racconto è vecchio di anni, e comparve pure su una 'fanzine' (chiamiamola così) fotocopiata e spillata a mano, "Il Signor della Pioggia", che distribuivamo in scarne copie all'università, anzi, solo nella mia facoltà - un volantino di una qualche serata di musica elettronica, su cui era effigiata la ragazza in questione, ovviamente ritoccata al computer.
Bella, sensuale, capelli nero corvino, occhi completamente neri, deliziose lentiggini e labbra carnose semisocchiuse a reggere un... chip. ^__^
Devo ancora averlo, da qualche parte. Mi colpì molto.
E nacque questo racconto breve, che a causa di quell'uscita minimale, per non incappare nella censura del regolamento del trofeo (morale personale elevata), sto rivedendo da capo a piedi.
Anche qui, la bellezza era intrisa con la scrittura: come per il primo racconto, in cui la freschezza deriva dall'aver scritto di getto e in cui molto - visto il genere - dipende dalla capacità affabulatoria, anche in questo il vero e proprio uso delle parole - la selezione, la scelta, il bilancino nel micro e nel macro del testo - conta una cifra.
Scritto male, questo racconto vale poco o niente.
Infatti, è tutto lì il problema: il fatto è che, nella prima stesura, il racconto aveva un ritmo incalzante, crescente, omogeneo nella salita. Parte in un modo, arriva in un altro. Seguendo tra l'altro una precisa dinamica: l'emozione del protagonista.
Adesso: tutto questo si è mantenuto o si è perduto nella riscrittura?
Ci sto patendo d'anima.
Leggo, e sono restio a rileggermi. Osservo gli spezzoni, e non focalizzo l'insieme.
Non so, forse dovrei stamparmelo per riuscire a capire cos'è che non mi convince. Perché qualcosa non mi convince.
Ho tempo, per carità, ho tempo fino al 10 aprile...
Ma devo pur cominciare a metterci le mani sopra!

Per chiudere, do il bienvenida a Giulia, che mi chiarirà a breve quale esattamente della decina di Giulie che conosco è, cui ho dato l'indirizzo del blog ieri sera, dopo una lunga, misteriosa (e perché no? seducente) chiacchierata tramite gmail...
E soprattutto, vi comunico che ChiAmaRoma ha apprezzato il mio post su Bruno, mutuato dalle sue pagine web, e cogliendomi totalmente alla sprovvista. ^_^
Non avrei mai immaginato un feedback così immediato ed entusiasta da parte di una persona che non conosco. Anzi, ora che ci penso, è la prima persona che non conosco ad aver lasciato un commento sul blog! Wow!
Oltre a ringraziarla, il minimo che possa fare è instradare voi caproni (solo i caproni tra di voi, gli altri non hanno certo bisogno di essere instradati ^__-) a cliccare sul link a destra, dove c'è scritto "Bruno" e ad andare a spaccarvi dalle risate, ma non solo. ^__^
Detto questo, anch'io
fletto i muscoli e sono nel vuoto


GrimFang

lunedì 19 marzo 2007

De Satirae

Certa gente stanno fuori. Ricordate che per un bel periodo giravano gli esperimenti Mentos+Diet Coke? Beh, magari si è un po' esagerato, e sono usciti gli anticorpi....

Satira è l'anagramma di risata.
Non ci avevo mai pensato.
E in effetti, si tratta di un modo tutto particolare di farsi una risata.
Tanto per cominciare, perché si ride sempre di cose vere, terribilmente vere: la satira, si fa sempre sull'attualità. E in particolare su quella più scottante: la lingua batte dove il dente duole, ma invece di sentir male, si ride.
Si ride spesso amaro, come in tutto quello che in "Viva Zapatero!" ci fa vedere Sabina Guzzanti.
Si ride goliardicamente sollevati, al sentir/vedere che "il Re è nudo", alla maniera di Dario Fo.
Eppure, a ben pensarci, anche in questa risata dovrebbe esserci un che d'amaro: in primis, perché quel re è pur sempre il nostro re - e non è bello essere retti da un deficiente - in secondo luogo, perché "sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al Re".
Mi spiego.
Vedo una vignetta di Vauro, che so, sulle uscite del papa in occasione dei Dico. Anzi, quel pezzo in cui Crozza fa Ratzinger che dice "Pax in terra! ...pax... Pacs... no, forze è melio ti no", e rido. E mi si risolleva un po' l'animo, per cui, quando continuo a sentire delle interferenze del Vaticano nell'amministrazione di uno stato nazionale laico, mi torna in mente Crozza e le palle mi girano meno di quello che dovrebbero.
Adesso, l'esempio, come ogni esempio, non rende al meglio ma dà l'idea.
E' il motivo per cui fare di Berlusconi una macchietta, anche se già lo è di suo, ci ha aiutato, sì, a sopportarlo, ma ci ha anche in qualche modo impedito di tirarlo giù dal piedistallo e dalle sue scarpe col tacco alto.
Non scherzo: Berlusconi, a causa della satira, ci è diventato familiare. Lui, un corpo estraneo della politica, del senso civile, di ogni valore e moralità. Qualcosa che ai nostri anticorpi avrebbe causato una crisi di rigetto.
Invece la satira lo ha 'sdoganato' come uno di noi. Forse gli ha impedito di trasformarsi in tiranno, forse in qualche modo lo ha arginato, relegandolo all'uomo qualunque, di poco conto, ma in fondo credo che gli abbia reso un grosso favore. Al di là delle (sue) teorie del complotto comunista e delle crociate contro la satira.
Ve lo ricordate il dilemma di Riot? La satira deve fare ridere?
Riot faceva ridere?
A me, ad essere sincero, faceva ridere poco.
Faceva pensare.

Perché la satira ha questo duplice aspetto.
Fa ridere, ma fa anche pensare. Purtroppo, questo secondo aspetto è opzionale.
Ovvero, della satira si ride sempre, se ci va e non ci sentiamo piccati o chiamati in causa o siamo noi l'oggetto di satira. Ma si può scegliere (o evitare) di pensare. Successivamente, quando si spegne la tv o si ritorna a casa.
E più si è abituati a ridere per ridere (com'era il titolo di un bel film di tanti anni fa), più si è portati a confondere la risata con la risatira... mi si perdoni il neologismo. Anche perché la risatira la senti, che in fondo ti brucia. E alle cose che bruciano non ci vuoi pensare. Insomma, non è poi così divertente pensare che sei stato impotente per cinque anni (ma sono molti, molti di più) ad assistere allo sfascio della politica italiana, che sei tuttora incapace di avere una classe politica che ti rappresenti degnamente e che abbia - lei, che dovrebbe averlo di default - quello che hai tu - che dovresti averlo, ma è un optional -: il senso della dignità.
Delle cose, delle persone.

Chiariamoci: non si ride col Bagaglino.
Non è satira, a mio giudizio, e non è risata. Non è spernacchio: lo spernacchio, Fo sarebbe d'accordo, non è mai ossequioso.
La satira ha dignità. Il Bagaglino no, quindi non è satira.
E infatti, le risate che produce - perché ne produce, nessuno lo nega (certo, in chi è molto disposto a riderci) - sono risate vuote, fini a se stesse. Fini... hmmm, vabbé. Finiscono lì, insomma.
Vedere un 'sosia' di Andreotti che prende una torta in faccia in effetti può essere solletichevole al palato come un impasto di cipolle, mostarda e code di acciuga.
Per chi può, andatevi a rivedere lo sketch di Alighiero Noschese e Ugo Tognazzi dove il primo fa il cavaliere che va alle crociate e cerca uno scudiero, mentre l'altro fa il fabbro contadino che non ha nessuna voglia di andarci. A un certo punto Noschese fa "Insomma! Vuoi dire che tu preferisci la falce e il martello allo scudo crociato?!" e Tognazzi annuisce...
^__^

E noi invece...

Finiamo col costruirci il palato in base allo squeraus televisivo.
Perché è da lì che viene il 90% della nostra satira.
Che è anche satira di costume, per carità.
Ma è nella stessa parola satira che si nasconde la politica, intesa in senso ampio. Perché il bersaglio della satira è sempre un potere imperante. Che sia una persona, una moda, un pensiero. E' il prendersi gioco dell'ottusità delle persone che non si rendono conto di come stanno effettivamente le cose.
E' il meccanismo de "il Re è nudo", e nulla è cambiato, da lì.
Uno sketch che presentasse una ragazzetta tutta contenta della nuova tariffa tutto incluso, che le dà il cellulare, la fa chiamare a zero centesimi al minuto con tutti e tutte le nazioni, ovunque si trovino, pure se non vogliono, che c'ha il gprsqwz (o gippierreesseccuvvuzzeta), il puk, il pin, il P.i.l., seimilanovecento suonerie ma tanto c'hai sempre la stessa e solo 100 euro di scatto alla risposta, è satira di costume.
E si ride.

Ma si pensa?
Quante persone, dopo uno sketch del genere, si spulcerebbero la tariffa che hanno sul cellulare? Si informerebbero? Cercherebbero un altro operatore?
Sono io il primo - che lo sketch l'ho testé inventato - a non farlo.
Perché sono pigro.
Perché siamo narcotizzati.
Ci stiamo lasciando andare all'oblio: una risata, bella, piena, lì per lì, e poi una frase che sa di lacrime di coccodrillo, del tipo "oddio, com'era quella battuta lì? ...era così bella...", pronunciata puntualmente quasi cinque minuti dopo.
Possiamo dare la colpa al tempo, alla velocità degli stimoli cui reagiamo, ai nostri proverbiali anticorpi con cui sopravviviamo alla pubblicità televisiva e che portano il nome di distrazione. Ma ogni volta, nell'oblio, insieme alla risata, ci finisci anche tu.

La tua coscienza civile, prima che quella politica (che è un insieme più grande e la ingloba).
E la satira, quella che ami perché ti fa sentire vivo e intelligente, viene via via relegata al ruolo di sporadico elettroshock di coscienza civile e politica che ogni tanto ti concedi.
Poca satira, pochi elettroshock, più narcosi: l'effetto drogante delle diverse satire - delle diverse risate, che comunque vai cercando, perché sennò dovresti piangere - ha la meglio. Il cervello smette pian piano di pensare, e si addormenta. Soprattutto quando la satira la assorbi dalle tv, dove già di tuo devi mettere in moto gli anticorpi per sopravvivere alle pubblicità.

E allora, anche su un blog come questo, fare satira è sempre più difficile. E i ragazzi che prendono in giro i video Diet Coke + Mentos fanno la satira migliore.
Quella che - proprio come gli anticorpi - viene naturale e spontanea.
Coccoliamocela.

Vi voglio quindi lasciare con qualcosa che non faccia ridere, ma faccia pensare.
Che viene da un maestro di satira, dell'arte di far ridere, che è Gigi Proietti.
E' il pezzo sul padre partigiano (se cliccate sul link, vi prego, *ignorate* il video, anzi, ascoltatevelo qua).
Ogni volta che, nello spettacolo Versi TriBellini al teatro Ygramul, lo sento recitare, mi levo gli occhiali, perché so come va a finire...

Mio padre è morto partigiano, a diciott'anni, fucilato nel Nord, manco so dove. Perciò non l'ho mai visto. So com'era da quello che mi' madre me diceva. Giocava nella Roma primavera. Mò, l'antra notte, mentre che dormivo... sarà stato... mah, due-tre notti fà, m'è parso de svejamme all'improvviso e de vedello, come fusse vero. Sulla faccia c'aveva... un gran sòriso, che spanneva una luce, come un cero. "Ammazza come dormi!", m'ha strillato - ed era proprio lui, ne sò sicuro, lo stesso de la foto che mi' madre teneva sul commò, dietro a 'na fronna de parma tutta secca, benedetta, un regazzino. Che ride, in camiciola, cor fazzoletto rosso su la gola - ma siccome io sognavo i sogni miei, pe' la sorpresa, j'ho chiesto... "Ma chi sei?".
"Sò tu' padre" - m'ha detto lui, ridenno - "Forse che te vergogni, alla tua età, de chiamamme cor nome de papà?"
"No, no, papà, te chiamo come hai detto, me fà ride... vedette ar naturale, eh eh, scusame tanto si me trovi a letto, che vòi sapé? Nu' me la passo male, nun sò 'n signore ma 'n po' me c'avvicino, trentadu' anni, davanti c'ho una vita, ancora nun è chiusa, la partita. Lo sai, da quanno mamma s'è sposata co' mi padre... che invece è er mio padrino, eh, credo sett'anni doppo la tua morte..."
E quello ho visto che strigneva l'occhi, come quanno c'è er sole troppo forte.
"...scusa papà, credevo lo sapessi."
Ma lui ridenno, senza facce caso, m'ha risposto, spavardo, spensierato
"Ma che ne so de quello ch'è successo? Io sò rimasto come v'ho lassato. Quanno giocavo, giocavo, giocavo - giocavo a carcio. E mica me stancavo. Giocavo co' tu' madre; e l'abbracciavo. Giocavo co' la vita; e nun volevo. Coi nazisti però nun ce giocavo, perch'io lottavo, lottavo, lottavo..."
Poi m'ha toccato i piedi drento al letto che m'ha fatto venì quasi 'n infarto. M'ha fatto 'n gesto come a dì "...sei arto!".
"Senti" - me dice - "Mo' che sei cresciuto, se nun t'offenni, prima d'annà via, me sai dì che n'hai fatto de la vita, che t'ho data, giocanno co' la mia, vojo sapé: 'sto monno, l'hai cambiato? 'sto gran paese l'avete trasformato? L'omo nòvo è nato o nun è nato? In quarche modo c'avete vendicato?"
E rideva.
Co' l'occhi, coi capelli, sembrava quasi lo facesse apposta. Me sfotteva, hai capito, quer puzzone! Rideva e aspettava la risposta.
"Ma tu che vòi co' tutte 'ste domanne, mo' perché sei mi' padre, t'approfitti!
Tu m'hai da rispettà... io so' più granne.
Vabbè che adesso accampi li diritti, perché sei partigiano, fucilato, ma si me fai svejà io t'arisponno, eh, abbasta solo ch'aripijo fiato.
Certo, che la vita è mijorata. Avemo pure fatto l'avanzata! hanno scritto sui giornali."
"Mejo così!" - me fa - "Se vede ch'è servito. Vedi, quanno che m'hanno fucilato, nun ho strillato le frasi dell'eroi... pensavo a voi, che sullo stesso campo avreste certo vinto la partita, pure che io perdevo er primo tempo."
"Beh, un momento papà, te spiego mejo. Nun è che avemo proprio, già... risolto... ne la misura in cui, ci sta il risvolto... ehhhrr..."
E allora quer regazzo de mi' padre, che stava a pettinasse, ne lo specchio, s'arivorta, me fissa e me domanna
"Ma insomma, adesso er popolo... comanna."
Qui so' zompato subito sul letto: co' 'na mano tenevo la mutanna, co' l'altra cercavo de toccallo, ma nun potevo perché nnn... E allora... J'ho parlato.
Perché m'è presa come... 'na malinconia, nun volevo che se n'annasse via prima de sapé bene com'è stato.
"Sei regazzo, papà, come te spiego... nun pòi capì com'è che cambia er monno... ce vòle tempo, er tempo se li magna li sogni nostri... Io sai che faccio? Aspetto. Tutto quello che viene, io l'accetto. Semo contenti si la Roma segna; li compagni sò tanti, i sòrdi pochi, e nun ce stà più tempo pe' li giochi... Sempre quelli, te strappeno le penne! Ma te nun pòi capì, sei minorenne... si eri vivo te daveno trent'anni, mejo che torni, papà, mejo che torni da dove sei venuto perché quelli, che t'hanno fucilato, proprio quelli, qui, te fanno morì tutti li giorni... lassa perde papà, qui nun è aria, semo cresciuti. Nun semo più bambini. Torna a giocà co' l'antri regazzini, che hanno fatto come hai fatto tu... Noi semo... seri. E nun giocamo più."
A 'sto punto mi' padre s'è stufato, ha fatto le spallucce pe' saluto, s'è rimesso 'n saccoccia la sua gloria, e voltate le spalle se n'è annato, ripetenno ner vento la sua storia
"Ma che ne so de quello ch'è successo? Io sò rimasto come v'ho lassato. Quanno giocavo, giocavo, giocavo - giocavo a carcio. E mica me stancavo. Giocavo co' tu' madre; e l'abbracciavo. Giocavo co' la vita; e nun volevo. Coi nazisti però nun ce giocavo, perch'io lottavo, lottavo, lottavo."

Tempi bui per la satira non sono quelli dove essa è perseguitata (anzi, è proprio lì che prospera - vedi Pasquino), né quelli - utopici - in cui tutto va bene (perché ci sarà sempre un potere da cazziare e mazziare), né quelli in cui gli oggetti dello sberleffo fanno ridere da soli.
I veri tempi bui della satira sono quelli in cui la gente ride, ma non pensa.
I nostri.


GrimFang

domenica 18 marzo 2007

Bruno

Una new entry 'de prepotenza' nei miei link ai blog o similia...

Se tratta de Bruno, o 'cronaca prelavorativa di un romano', una serie di post su Chiamaroma.

M'ha fatto spaccà, mentre ascolto la radiocronaca di Frey-Roma, perché praticamente la Fiorentina più che essere undici (anzi, dieci con l'espulsione di Dainelli) sono solo uno, il numero uno, cioé il portiere, che ci ha ripreso di tutto...

Allo stesso modo, finita 0 a 0 la partita, il sito di Xlater con qualche poesia volgare in romanesco, che personalmente trovo deliziose.

O Maccio Capatonda e Pina Sinalefe, che rasentano il genio... come in 'Anche No'. ^__^

Capitare per caso su questo test dal quale esce il seguente profilo

Il tuo profilo nella vita passata
Anno 1720
Luogo Galles
Chi ero Le tue possenti mani erano del fabbro o del falegname.
Personalità E tu eri egoista al servizio di sua maestà te stesso e cercavi il piacere per sublimare la tua solitudine.
Missione vita attuale Tu hai lo spirito instabile, e incline al gioco dei dadi. E hai molte idee, ma ne realizzi poche. E ami essere in movimento e cambiare luogo. E hai guardato con molti occhi, e parlato con molte bocche

nel quale mi ci vedo bene a fare il tagliaboschi gallese, considerato che andrebbe a inserirsi tra quando nel 1595 ero un romeno satanista e filosofo e quella del 1915 in cui ero niente popò di meno che Mata Hari...

Vabbé, andiamoci a fare uno spuntino...

GrimFang

mercoledì 14 marzo 2007

Animali, uomini e senso del sacro

A volte le immagini possono essere migliori di un discorso.
A voi i pensieri.


GrimFang

martedì 13 marzo 2007

Il post definitivo!

Ovvero, il post che sarà accolto con entusiasmo dal 99% dei maschi eterosessuali!

^__^

Già, perché in questo post parlerò di tette e calcio, calcio e tette!!!

^______^

Tutto nasce perché, dalla lontana nebbiosa Albione, l'ennesima ragazza di una lunga lista si chiedeva perplessa perché mai io sia un tifoso di calcio.
Non so, si vede che è una cosa che a prima vista non mi si addice, non si direbbe, eppure...
Cosa c'entreranno le tette?
Niente, è che oggi in metro ne ho viste un paio spet-ta-co-la-ri, incastonate sotto un visino meraviglioso e una casacata di ricci castani.
Enormi, ovviamente.
No, non i ricci.
^__^

Ad ogni modo, per quanto riguarda la mia passione calcistica, potrei farvi una forbita disquisizione sul mito.
Ad esempio, potrei dirvi che tifare una squadra di calcio è come avere un'idolatria per un cantante. Esagerato comunque, mi risponderanno le voci critiche, ma ciascuno segue una propria mitologia personale. Tifare una squadra di calcio, però, precisiamo, non è effettivamente tifare gli undici giocatori in campo, o tutti quelli della rosa a disposizione dell'allenatore. Non è nemmeno tifare per tutto l'insieme, allenatore e presidente compresi. E' di più. E' tifare per la maglia, per i colori, per un simbolo che tutte queste cose trascende. Un tifoso della Roma, come me, è tifoso sia della Roma di adesso che di quella del primo scudetto. Così un tifoso della Fiorentina come il Deso o un tifoso (ma come si fa!?) della Giuventus (^__-) come Filo.
E' in nome di questa (purtroppo chiamata) fede che ci si possono permettere contestazioni, all'arbitro, al gioco, agli allenatori.
E' una mitologia, con il proprio rituale: che viene celebrato e rinnovato ad ogni partita, ogni settimana. A volte anche più di una volta a settimana. La squadra che gioca è solo una parte di questa mitologia, una parte importante per carità, ma che viene sempre trattata come un pupo di cui si seguono gli sviluppi.
Il rituale vero e proprio, la partita, azzera ogni volta lo stato stabilito dalla partita precedente. Hai vinto domenica? Il sabato dopo non hai la più pallida idea di ciò che sarà.
Come in tutti gli sport in cui si fronteggiano due squadre, o due gruppi, due persone, nella partita riecheggiano gli antichi scontri, i duelli medievali. Il confronto tra due capacità. Vincerà la competenza o la velocità? Vincerà la tattica o la strategia?
Come nell'antico scontro tra Ettore e Achille, ti trovi a parteggiare per l'uno o per l'altro, sapendo che non c'è, in campo, realmente pericolo di morte, ma respirando lo stesso clima esaltante di battaglia epica, di diverse ragioni e diversi diritti. A mio modo di tifare, di pari dignità entrambi.
Un bel gol è un bel gol, e non c'è un cazzo da dire.
Ancora mi bruciano i gol di Signori in un derby con la Lazio che vorrei dimenticare... mi toccò offrire la colazione a Simone il giorno dopo, e la partita l'avevamo lasciata che noi vincevamo e loro erano in dieci...
Ma tornando a noi, potrei dirvi che tifo Roma perché parteggio per Ettore, da sempre.

Ma non voglio dirimere la questione con un'argomentazione così semplice.
No, voglio proprio raccontarvi che tipo di tifoso sono e da dove ha origine il mio tifo.
Giusto per chiarire subito la questione, non sono uno di quelli che ti sanno recitare a memoria la formazione di tutto il campionato, e magari anche di altre squadre internazionali, anno per anno. Non so nemmeno la rosa completa della mia squadra ora!
A malapena so dirti in che anno abbiamo vinto gli scudetti - troppo pochi - e chi ha segnato i gol della settimana scorsa me li sono già scordati.
Eppure...

Eppure se la Roma perde mi girano, e sto male. Eppure quando guardo le partite quando segnano mi alzo e grido come un ululato.
Sono stato una sola volta allo stadio, Olimpico, Roma-Torino, Curva Sud, mitico esordio di De Rossi in campionato che, oltre a Cassano, segnò un gol splendido che se non c'era la rete mi prendeva dritto in fronte. E non finirò mai di ringraziare FdP per avermici portato, regalandomi il biglietto.
Se la Roma vince sono di buon umore, e per tutta la partita, comunque stia andando, soffro, soffro come un cane. Anche perché, diciamolo, ho scelto di tifare una squadra che anche sul 3 a 0 non ti puoi rilassare... ora capite perché dico che tifo Ettore? ^__-
E a chi mi vede in quelle occasioni, è vero, può sembrare strano vedermi in quello stato.

Bene, chiarito che razza di tifoso sono - molti tifosi direbbero 'all'acqua di rose' se non peggio - adesso è il momento di raccontarvi come ci sono diventato.
Alle elementari, in quarta o in quinta, qualcuno mi chiese:

"Sei della Roma o della Lazio?"

Badate bene, non chiese "per che squadra tifi", dava già tutto per scontato.
A me, che del calcio non sapevo e non mi fregava niente, ma che non volevo essere, per così dire, emarginato, necessitava urgente riflessione per far fuoriuscire una risposta importante.
Non sapevo nemmeno di che squadra fosse chi me lo stava chiedendo, quindi neanche a dire che sapevo quale risposta lo potesse compiacere (ma non l'avrei fatto comunque, all'epoca si era un po' più spontanei ^__-).
Così a bruciapelo, mi misi a pensare, e mi venne splendidamente facile.
Roma, città di Roma, la mia città, casa; Lazio, regione Lazio, più impersonale.
Roma, giallo e rosso, colori caldi, accesi, belli; Lazio, bianco e azzurro, freddi, anonimi, senza verve.
Roma, la lupa, animale che già allora mi dava una bella sensazione - o forse era già il mio animale preferito; Lazio, l'aquila... che vabbé, sarà pure un bell'animale, ma se ne sta generalmente da sola, per i cazzi propri e viene pure associata agli aspetti più retrivi del potere (e, sì, magari non in questi termini, ma in quarta elementare c'ero abbastanza vicino a questi ragionamenti! ^_^) e insomma, mi stava un pochettino sul cazzo.
Elementare: tifo Roma.

Questa affermazione è rimasta per almeno un decennio una presa di posizione, un'affermazione di principio e niente più. Se sapevo che la Roma aveva vinto, ero contento, se no me ne fregavo.
Essere tifoso, per me, significava più o meno quello che significa adesso per le persone che si stupiscono del fatto che io sia tifoso - sempre donne, di solito. E dire che ne ho conosciute di belle fomentate del calcio, mitica Anastasia in testa, che quando gioca la Roma rischia ogni volta il coccolone (ed è di Pescara, lei!).
Comunque, più o meno, il concetto allora era tifoso = un pazzo invasato che strilla e sbava appresso a undici cretini in calzoncini che inseguono un pallone che viene tirato dentro una rete. Sai che divertimento...
Eppure...

Eppure, come ho detto, sentire che la Roma aveva vinto - non che vinceva, mai seguito una partita, allora - mi faceva piacere.
C'era, cioè, una parte di me che si emozionava all'idea di partecipare, in qualche modo, anche di striscio, a quella fetta di popolazione - come una grande famiglia espansa - che condivideva con me quella stessa passione.
Anni dopo, al liceo, un gruppo di fascisti non m'avrebbe menato perché portavo addosso qualcosa della Roma. Assurdo. Come in Spagna durante la guerra civile, riconoscersi fratelli tra le barricate.
Quindi c'erano, già allora, i prodromi per quel seme che doveva germogliare.
La passione cresceva mantenendosi nel distacco totale, ma apprezzavo di più i discorsi sul calcio, ad esempio. Perché, diciamolo, un tifoso è tifoso soprattutto perché del calcio si parla. Il gusto fondamentale del tifo calcistico è tutto racchiuso nella chiacchiera da bar.
E' per questo che esistono tifosi che sanno tutto a memoria, perché questo aumenta l'autorevolezza dei loro commenti da bar. Siamo tutti allenatori. Siamo tutti giocatori.

Se alle elementari non mi facevano giocare a calcio perché ero una pippa, alle medie cominciai a prendermi qualche rivincita.
A parte che, nella nostra classe/squadra, avevamo Ilaria Coviello, donna, che era un vero bulldozer del pallone, io - pur relegato a stare in porta o in difesa mentre sognavo di giocare da libero o da ala - cominciavo ad imparare a giocare.
E per uno che tifa sapere le regole del gioco è chiaramente fondamentale, ma ancor di più lo è sapere cosa si prova a stare in campo. Correre, risparmiare il fiato, spendersi in difesa o prendere e dare passaggi, smistare palloni, lo spirito di squadra, richiamare l'attenzione dei compagni...
Io, il mio primo momento di gloria calcistica, l'ho avuto da portiere.
Ho sempre, anche ora, avuto paura di farmi male per una pallonata. In particolare di rompermi le dita (Fabio Spaghetti si ruppe un braccio in rovesciata, ad esempio), quindi non ero questo granché di portiere. Ma quel giorno eravamo una seconda contro una terza, e il tizio che mi venne di fronte col pallone mi stava abbondantemente sul cazzo. Non so, forse fu per questo che - incapace allora come adesso di fare una vera parata - lui tirò ed io respinsi la palla, finendo a terra. Lui la riprese al volo e tirò ancora, ed io con uno scatto di reni mi allungai e la respinsi di nuovo. E lui ancora la stoppò e tirò di nuovo, mentre la difesa tornava e con lei gli attacanti, e la squadra avversaria, tutti. Respinsi di nuovo, sempre finendo a terra. Con le mani, col ginocchio la gamba, io respingevo e lui tirava. Ed io mi accorgevo che tutti quelli che stavano tornando, o correndo verso di me, rallentavano, si fermavano.
Tutti dietro di lui, paonazzo di rabbia, frustrato, che continuava a sparare sassate dirette iin porta, porta che io, gasato come non mai dalla straordinaria combinazione, paravo - pardon, respingevo - nenache fossi stato Gato Diaz de 'Il rigore più lungo del mondo' di Osvaldo Soriano.
Alla fine segnò, ma ero io, la pippa, quello che aveva vinto.

E' anche questo il bello del calcio.
Quello che mi fa amare Damiano Tommasi, calciatore che segnò il suo primo gol dalla metà campo, sorprendendo a parabola il portiere avversario, che era fuori dai pali.
Chiunque avrebbe detto "l'ho visto fuori dai pali e ho tirato". Soprattutto nel calcio di adesso.
Lui no. Serafico, ammise: "boh, io veramente ho crossato" - non c'era nessuno davanti, a chi cazzo aveva crossato?! - "poi se la palla è entrata... bene così!".
Forse adesso non c'è più, un calcio così.
Sono finiti - ma io testardo spero che tornino - i tempi di un 'Sindacalista del Calcio' come Bergomi - credo fosse lui - che quando segnava non esultava mai, "per rispetto ai colleghi che il gol l'hanno preso".

E proprio Soriano mi offre l'occasione di citare ciò che ha cementato la mia passione calcistica.
Ad esempio, lo spettacolo "Tacalabala", da un'espressione di Helenio Herrera.
Che racconta momenti in cui il calcio diventa poetico, e tocca il sublime, nel racconto che si fa della triste festa del campione portoghese che dava l'addio alla professione, e che invitò i suoi amici, il Grande Torino, a disputare una partita celebrativa. Un gioco sull'assenza, in cui una persona parla, ma altre due non la sentono, come se non esistesse.
Ma sono quei due, a non esistere. Perché sono loro, atleti del Grande Torino di allora, ad essersi schiantati, il 4 maggio 1949, sulla collina di Superga, nel viaggio di ritorno.
E l'Inghilterra, da cui mi viene questa ultima richiesta di chiarimento, patria del Manchester Utd. che affronteremo in aprile in Champions League con tanti, tanti patemi perché sono avversari terribili, e ancor di più Londra, casa dell'Arsenal, chiamano a gran voce "Febbre a 90°", film che ho amato, tratto da un libro che risulta noiosissimo per i non fissati (me compreso) a causa delle continue citazioni di formazioni e partite. Un film imperdibile, sull'argomento. Che - solo con la scena verso il finale in cui lui, nonostante la finale dell'Arsenal sia in atto, deve scegliere se scendere da lei o non staccarsi dal televisore, per chiudere poi in un modo geniale - insegna quali spazi esistono per amare quelli che amano il calcio e quali limiti biosgna avere nell'amore per il calcio per poter amare...
E ancora, restando al cinema, l'imperdibile Gassman (Vittorio) ne "I mostri", episodio "Che vitaccia!", ma SOPRATTUTTO ne "L'Arcidiavolo"...
Non ve lo posso spiegare... in quella scena c'è tutto quello che per me è la passione per il calcio. Per me, che da mezza schiappa sono arrivato a sapermela cavare - e anche a giocare da libero, pur arretrato in difesa - e persino a segnare, e un sacco di volte!, quel suo strillo "Pallaaaaa!!!" quando fino a un secondo prima faceva il sostenuto con una ragazza, sostenendo che il pallone era un'invenzione senza futuro... ecco, è perfetto.

Ed è così che sono approdato al tifo vero per il calcio.
Sull'onda di un entusiasmo via via più autocompiaciuto per le vittorie della mia squadra, che hanno cementato un senso di appartenenza a una bandiera, e delle partite a calcetto giocate con gli amici (tra cui una mitica sconfitta 16 a 13 per gli avversari ottenuto su campo in terra sotto il diluvio universale dopo una partita di due ore, in cui i terzini sparivano inghiottiti dalle pozzanghere e i difensori segnavano entrando in scivolata da davanti la loro porta, ed io ero il più piccolo d'età) ho cominciato a interessarmi alle partite.

E il passo definitivo è stato seguire "Quelli che il calcio", ovviamente quando c'era Fazio.
Un modo garbato, intelligente e gradevolissimo di seguire tutte le partite, non solo la propria squadra, e innamorarsi dello sport in sé, del gioco, dell'agonismo. Di entusiasmarsi per una particolare azione, una prodezza, un'acrobazia. Per godere come un riccio nel vedere Mastandrea e Paolantoni compiere ogni scaramanzia. Nel vedere Verdone soddisfatto di aver portato il figlio allo stadio e aver 'fatto vincere' la Roma. Ma soprattutto, soprattutto, nel vedere il premio nobel DULBECCO, alzarsi di scatto a 90 anni suonati e gridare "GOOOLLL!!! GOOOLLL!!!" per un vantaggio del Genoa!
^__^
E' stato lì, in quel preciso momento, che sono diventato il tifoso che sono.
L'equazione tifoso = buzzurro era caduta. Non aveva più senso di esistere.
Il calcio esalta, avvince, esoricizza, condanna, purifica, fa sentire vivi, socializza, entusiasma, e negarlo non ha senso. In tutte le declinazioni non violente in cui si presenta.

Adesso mi diverte vestire giallorosso. Mi piace portare la sciarpa della Roma.
Nella festa dell'ultimo scudetto sono andato a buttarmi nelle fontane di Piazza del Popolo con gli altri, e a due turisti inglesi con la bandiera della Roma sulle spalle che mi chiedevano preoccupati se potessero incappare in qualche problema ho risposto "tu, co' quella, oggi pòi annà dove te pare!". E quel giorno comprai bandiera e trombetta, e mi precipitai a Piazzale degli eroi dove, l'anno prima, al terzo piano c'era esposta una bandiera della Lazio lunga due piani. Ed era gustosissimo vedere che eravamo in cento, tutti a faccia in su, verso quelle persiane chiuse.
Perché le stecche (quelle con le dita) all'avversario fanno parte del gioco.
Adesso mi piace tenere sul lunotto della macchina un drago cinese giallorosso con su scritto "chi de 'sta Roma borbotta è 'n gran fijo de 'na m...".
Adesso ho anche composto un inno per la Roma, cambiando le parole di Jeeg Robot D'Acciaio.

Perché il calcio è uno sport che va giocato col cuore. Col senso di squadra.
Proprio quello che ci mette Damiano Tommasi, anche se è uscito dalla mia squadra del cuore.
Perché non tifavo Italia, schifato dall'individualismo dei supercampioni alla Del Piero e alla Roberto Baggio prima maniera (un giocatore che ho adorato dopo che si è trasformato, giocando nel Brescia). Persino del Totti prima maniera. Perché preferivo un Nakata e un Batistuta, che era figlio del migliore amico dello zio di un mio amico, detto il Papa. Che abbiamo seriamente rischiato di averlo come straniero a una partita di calcetto. E non tifando Italia contro la Nigeria, che preferivo (ah, le squadre africane... ah, la vittoria del Senegal sui galletti francesi...), fui vittima di un cappottone storico a quel maledetto rigore segnato al 90°. Che per andare a vedere la partita guardavo l'orologio in attesa di sostenere l'esame di Economia Politica... dove tra l'altro presi un 28.
Perché ho tifato Italia come uno sfegatato nei successivi mondiali, in cui c'era un'impronta forte della Roma, pur continuando a non digerire del Piero.
Perché il calcio unisce, e non divide, quando è pulito e ben giocato.
Perché giocare a calcio, su un campo di calcetto, fa bene all'anima.
Ed io lo so, perché ci son passato.

Rimane da parlare delle tette.
Non me ne vogliate, ma sono le tre e mezza di mattina, e domani - oggi, per voi che leggete - devo anadare a lavorare.
Vi dirò brevemente le due cose che mi erano venute in mente.
Ok, ok, non sono quelle due.
La ragazza di oggi sembrava dolcissima. E portava la sesta, minimo.
Adesso, le tette grandi devono essere ben portate, ma, ad ogni modo, mi son convinto di una cosa. Le tette obnubilano.
Insomma, noi maschi abbiamo dei criteri, selezioniamo, ma di fronte ad un bel paio di tette, improvvisamente i conti si azzerano. Sul piatto della bilancia, quella massa di carne materna e accogliente, quei cuscini su cui sognamo di sognare contano più di tutto.
I sensi si azzerano e, se proprio non sei una cozza terrificante, come quella di cui canta Greg (di Lillo&Greg), i tuoi difetti ti saranno perdonati. Anzi, a dire il vero proprio non li vediamo.
Sul perché o sul percome discuteremo un'altra volta, magari, se volete. Ma credo che questa sia un'innegabile verità: più del culo o di qualsiasi altra parte del corpo, le tette sono un vero e proprio richiamo animale.
Dunque, ragazze, se avete tette, mostratele.
Perché sono proprio una gioia anche solo a vedersi. Mettono allegria.
Anche senza toccare.
Su certe tette, starebbe bene una maglietta con su scritto
"Io sono la luce, voi le FALENE".

^__^

GrimFang

lunedì 12 marzo 2007

Mai più dall'ufficio

Bum.
Mi sono bruciato un altro post.

Vi scriverò sempre da casa. A meno che non cambi metodo di scrittura...

Grrrr... agirò di copia e incolla!!!

^__^

GrimFang

venerdì 9 marzo 2007

Vabbé, vi volevo dire... (idealmente recuperato)

Non riuscirò mai a riassumere così bene come avevo scritto in prima stesura perché Mastella è un imbecille.
Le mie elucubrazioni sopraffine se l'è mangiate il computer.
E poi, non è che ci volesse un granché a stabilire che è un idiota, dunque tutto il valore stava nella brillante argomentazione.
^__^

Per chi non lo sapesse ancora, ieri era ospite da Santoro alla trasmissione "Anno Zero" (che non ho visto ma di cui ho letto oggi), ed ha avuto la brillante alzata di capo di andarsene via dalla trasmissione strillando indignato, proprio nel momento in cui Vauro stava spezzando una lancia in suo favore.
Certo, le prime parole di Vauro lo avranno impressionato: "Sapevo che fosse una trasmissione di comunisti, non pensavo fossero pure FROCI...".
Poverino, il termine deve essergli sembrato troppo.
Qualunque psicologo, così, di primo acchitto, direbbe che Mastella è gay.
E' evidente: la propria sessualità repressa, il proprio lato omosessuale mai accettato - scommetto che è andato a scuola dalle suore, quindi la probabilità balza vicina al 100% - non ha potuto reggere il confronto con un simile concentrato sbandieramento di orgoglio omosessuale.
Quindi, ha coerentemente agito da checca isterica, abbandonando lo studio in lacrime (scommetto, di rabbia).
E' dura dover ingoiare la propria frustazione, essere scossi nel profondo di una propria mascolinità clericale costruita a tavolino.
Ma, orientamento sessuale a parte, il Clemente ha dimostrato di essere ben poco clemente: oggi, infatti, ha tuonato presso le autorità competenti affinché Santoro venga sospeso.

Già, perché Santoro non ha minimamente prova a fermarlo, anzi, quando è uscito è esploso, sfogando la sua rabbia nei confronti di tutti questi piccoli uomini arroganti della politica che non sono assolutamente in grado di ascoltare (i cittadini, aggiungeva, ma io direi ascoltare e basta). Quelli che oggi - alla luce del comportamento del mastellino nazionale - mi sembrano merde vaganti di salotto buono in salotto buono. Gente che il paese non se lo percorre nemmeno in campagna elettorale: passa direttamente dalla sala di un cinema a un convegno senza guardare le case, respirare i profumi, parlare alla gente. Solo claque. Vogliono solo claque, o politici come loro, dove possono far finta di saper fare almeno un mestiere.
E passano gli anni al potere parlando di aria fritta, perché di altre cose, quelle vere, non sanno parlare - dato che non le conoscono.
Del resto, da un posto che si chiama Ceppaloni, poteva venire solo una testa di...

Quindi, nell'arco di una serata, Mastella sì è dichiarato disponibile, aperto al dialogo, tollerante, e si è dimostrato represso, misogino, velenoso, meschino, gretto e chi più ne ha più ne metta.
Già questo da solo basterebbe a dargli dell'imbecille e a concludere l'argomentazione.
Ma la cosa che più mi fa incazzare, al di là della pochezza della persona e dell'insignificanza del politico che ha dimostrato, è la ripicca.
Hai fatto una figura di merda colossale, ed è tutta colpa tua. Non ti insultava nessuno, ti facevano domande, ti lasciavano argomentare. Certo, il clima non doveva essere dei migliori, perché se Vauro cominciava una frase in tua difesa a quel modo, si vede che eri stato un po' messo in minoranza, magari a bella posta. Può essere, è vero.
Ma, in altri tempi, altri politici, con un diverso senso dello stato, delle istituzioni, del ruolo che tu stesso - purtroppo e mio malgrado - sei chiamato a svolgere, avrebbero affrontato la situazione con la forza della chiarezza delle proprie idee, giuste o sbagliate che fossero. Politici che portavano sulle spalle il ricordo dei fazzoletti da partigiani, e chissà - forse persino Almirante, che è distante da me quanto l'ultimo buco di culo della galassia ancora da scoprire. Ma avevano qualcosa che tu evidentemente non hai. La dignità.
Personale e delle proprie idee.
Nessuno, nessuno di loro sarebbe ricorso come fai te alla sottana della mamma, alle forbici del censore. E sai perché?
Perché tu sei un piccolo uomo. Perché non hai idee, e non credi nella forza di quelle poche che hai. Perché evidentemente non fai la politica delle persone, quella che facevano loro, ma la politica delle poltrone; e spero tanto che questo colpo ti affossi, me lo auguro con tutto il cuore.
Perché quegli uomini si sarebbero inalberati, si sarebbero attaccati al ribadire le loro ragioni, avrebbero alzato la voce, discusso animati; avrebbero nel caso anche dato del fazioso al conduttore ed alla trasmissione in diretta. Ma non si sarebbero mai alzati e se ne sarebbero andati perché, vedi, per loro quella non era una qualsiasi trasmissione. Non era, come la vedi tu adesso, una puntata di un talk-show dove entri e ti mettono il cerone. Non era nemmeno un posto in cui il padrone di casa era il conduttore, come sublimamente pretende Vespa facendo suonare il campanello nella sua trasmissione. Non era un salotto qualsiasi.
No.
Per loro, che erano ancora coscienti del senso delle cose, andare in onda era - come dovrebbe essere, come è ancora - parlare alle persone.
Quelle a casa, che la tv la guardano.
Hai presente, i cittadini, gli elettori...

Ma tu no. Tu piccolo uomo vedi solo Santoro. Vauro. Chiunque ci fosse.
Pensi e ragioni in termini di marketing, convenienza, risposte.
E quando ti si cita in faccia il caso della cattolicissima Spagna che pur in quel senso è liberale, tu non puoi che arrampicarti nel fumo, di cui sei un buon navigatore, per sostenere che allora Pacs è come consentire la poligamia islamica.
Dimenticando che in Italia la poligamia è reato.
Dimenticando che in Italia, come in qualsiasi altro paese civile, la convivenza non lo è, e ci mancherebbe.
Dimenticando qualche sano principio della nostra Costituzione, tipo "senza distinzioni di sesso, razza, età, religione...".
E tu mi vieni a dire che sei un politico?
No, dai, su, non scherzare, sei un imbecille.

E poi, la censura.
La censura!
Ma dico io, e tu saresti anche uno della coalizione riformista?
Mio Dio - e non lo dico invano - ma pensa che riforme potrebbero uscire da uno come te! Da oggi tutte le donne col burqua! Tutti quelli che hanno 9 anni da oggi ne avranno 12! Tutti dovranno portare le mutande sui calzoni, e quelli coi baffi si chiameranno Tom!
Dai, siamo seri. Tu che nemmeno sai il paese reale da che parte è.
Anzi, tu che a dirla tutta nemmeno ci credi. Ti hanno raccontato di un 'paese reale' ma tu sei furbo, non hai dato retta a Lucignolo. Tanto Babbo Natale non esiste.
Gesù Bambino, ti prego, portatelo su in fretta... vabbé, senza esagerare, donagli la pace dei bambini, privi di pensieri, pieni d'entusiasmo... tanto basta solo abbassare di un tantinello la sua onda cerebrale, non è poi tutto 'sto sforzo.
E anche non volendo considerare l'appartenenza o meno ad un'ala riformista, e lo scarsissimo valore politico di una simile azione, non ti rendi nemmeno conto di cosa significhi quello che fai.

Perché ricorrere alla censura, è sempre dimostrare di avere piccole idee. Si soffocano le grandi, per far brillare le proprie.
Ma le tue sono talmente piccole che non brilleranno mai.
E così, dimostrandoti un bastardo censore (oops, scusa, m'è sfuggito il 'censore'), colto in fallo - pardon, non voglio urtare la tua sensibilità repressa - colto con le mani nel sacco dimostri, nel portare a sublime compimento questa colossale figura di merda, di
1. non avere alcuna statura politica, oltre che personale
2. non avere capacità di ascolto
3. non avere considerazione del pubblico, di chi ti ascolta comunque, faziosa o non faziosa la trasmissione
4. di avere la coda di paglia, perché hai pensato che il FROCI fosse anche per te, e
5. non avere capacità di comprensione, perché non lo era, e Vauro stava venendo a darti una mano
6. non avere lungimiranza politica, perché una simile scenata non ti fa comunque bene
7. non avere un'idea, un pensiero, una credenza anche religiosa che ti desse la forza di restare ad esprimerle combattendo per loro
8. di non avere valori, perché non ti è passato per l'anticamera del cervello d'infervorarti nella discussione, ma hai preferito scappare sconfitto (per quanto tu la possa montare il giorno dopo come cospirazione, Berlusconi docet)
9. di non essere affatto tollerante, e quindi di essere ipocrita, perché hai esordito dicendo che lo eri
10. di essere un omofobico gay (ma all'1% direi che resta ancora opinabile)
11. di non essere in grado di parlare, discutere e mediare le posizioni (ma allora che cavolo fai il politico a fare?)
12. di essere una vipera vendicativa con tracce di comportamento infantile (e allora è proprio una bellezza averti come alleato)
13....
...n. di essere un imbecille, cvd.


Ma smettiamo di parlare di Mastella, che era solo uno degli argomenti del post originale.
Già, perché volevo ricordare Gianfranco Valentini, amico di mia madre, che ci ha lasciato ieri, 8 marzo.
Cancro, e non un ambiguo e imbecille 'brutto male'.
Le cose hanno un nome, usiamolo. Se poi abbiamo paura che solo a nominarlo si diffonda, usiamo l'antica pratica romana della mano sulle palle e premettiamo "Dio ne scampi!". Che poi vorrei sapere, se quello è il brutto male, qual'è il bello? Sifilide? Aids? Scarlattina? Cos'è, un male che mentre ti ammazza almeno ti diverti?
Bah.
Gianfranco era professore, credo d'italiano al Seneca, o qualcosa del genere, ed era amico di famiglia di vecchia data. Uno di quelli sempre presenti mentre cresci.
Ed anche uno dei pochi che s'interessasse a quello che facevo, andando oltre le solite domande di rito. Anche un po' mettendomi a disagio, perché quando uno ti chiede dei tuoi studi, della tua vita, delle occasioni da prendere e non sprecare, ti senti a disagio. No, non per l'inchiesta cui ti sottopone: è che quando uno, come faceva lui, ti mette davanti allo specchio, è un po' difficile contare palle. E anche dopo che sei riuscito a glissare sugli specchi a quelle tre, quattro domande, ti resta comunque molto cui pensare.
Mi mancherà, Gianfranco.
Mi mancherà il suo fumare ed il suo bastone, cui si appoggiava per camminare.
E mancherà a mia madre, che non l'ha presa troppo bene.
E' il primo dei suoi amici veri, stretti, che muore. E per lei, che vive da quando è nata con la paura della morte, è un colpo duro da sopportare.
Per la prima volta, ieri sera, l'ho vista fare una cosa davvero tenera, senza scopo, perché la voleva fare.
Una cosa che ho fatto anch'io, per un'amica.
Ha scritto un sms a Gianfranco. Per ringraziarlo della sua vita, della sua amicizia.
Una piccola bottiglia con dentro un messaggio, lanciato nel mare senza spazio e senza tempo dell'etere.

L'altra cosa, che nel post precedente non era l'ultima bensì la prima, è stata una frase di Erica, oggi.
Benedetta donna (nonché lettrice del mio blog), che dopo avermi detto qualche tempo fa "Tu sei l'uomo della mia vita" oggi aggiunge "Se noi stessimo insieme mi sa che ti farei del male".
^__^
Come si fa a non voler bene a una così? Diretta e delicata.
Premurosa, evitando ogni scossone, con cautela.
Lei, normalmente drastica, capricciosa, permalosa (anche io non scherzo) pronta a prendere di petto le cose e ad impuntarsi, che improvvisamente dice una cosa del genere con un tono così dolce da lasciarmi quasi senza parole. Così lucida, da centrare in pieno una mia paura paralizzante e una propria profonda diversità dal sottoscritto che non ci rende incompatibili, ma promette burrasca. Così preoccupata nel riconoscere che tutti e due siamo simili anche se non ci becchiamo mai, entrambi preoccupati di farci del male e non solo, di farlo all'altro.
Gerusalemme liberata, siamo proprio due canne al vento, noi due.
Amiamo la nostra libertà e la nostra indipendenza, ci riconosciamo fragili, eppure... Eppure è così faticoso vedersi. Parlare. Nessuno dei due vuole forzare e lascia che le cose scorrano, col tempo che hanno. Se sarà una lunga o una breve amicizia, quanto sarà intensa, che strade prenderà, ci preoccupa, ma non ci determina.
Stiamo bene insieme le rare volte che usciamo, e la fase del sentirmi male con lei l'ho già affrontata. Quindi riesco sempre più a rilassarmi, anche se non mi trovo. Se attendo. Se non so cosa voglio. Se, in fondo, la lascio anche un po' appesa, trasformandomi - dal suo punto di vista - in un perfetto stronzo, categoria che (a causa del successo che ha con le donne) qualche volta mi son trovato ad invidiare.
Ma non sono uno stronzo completo. O meglio, canonico. Non pretendo, non prendo quel che voglio, non ricevo senza dare. Sono uno stronzo proprio nell'accezione di una vignetta che vidi una volta, in cui il protagonista diceva:
"Non sono né buono né cattivo. Sono una via di mezzo: uno stronzo."
Ecco, quindi, che mi fa così bene avere ogni tanto davanti quello specchio salutare sulla mia trasformazione, sulle mie azioni, sulla crescita del mio percorso vitale.
Sui miei presuntuosi atteggiamenti paterni, di 'consigliori' di tutti i generi, che sono solo l'ennesima maschera del crocerossino che subdolamente vuole perpetrare la sua esistenza. E rendere più difficile la mia. Sul mio attendismo, scusate, del cazzo, cui sto provando a rinunciare.
Con la semplicità di quella frase, e la tenerezza di quella voce.
Grazie, Erica.


GrimFang