L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

giovedì 28 febbraio 2008

Nothing personal

Niente di personale.
Devo imparare a ripetermelo continuamente, a lavoro.
Ieri, dopo un eccesso di stress, son tornato a casa prima del tempo. Diciamo che ho avuto ben chiaro che vuol dire lavorare sotto pressione.
Il fatto è che il mio approccio a 'dare il meglio' per fare non solo bella figura io, ma tutto l'ente di cui faccio parte (ricorda a nessuno il concetto che dicevo di 'osmosi con la famiglia'?), non è affatto il miglior modo di fare il mio lavoro qui, in Videoteca. Perché capita spesso che tu proprio non lo possa fare, o non ti sia affatto richiesto e che comunque tu non possa far diventare una fonte di stress un pressapochismo altrui o una mancanza di chiarezza a monte.
Curati bene il tuo orticello, avendo molta attenzione a quello che proprio non puoi fare e col quale non devi farti il sangue amaro: così è la vita.
Chiarisco in termini pratici sennò filosofeggio sull'aria: è capitato che del materiale uscito per il Tg2 Dossier non andasse bene - e già a torto questo l'ho preso come uno smacco - e che ne dovesse essere fatto altro con una certa urgenza. Quello che già non era chiaro a monte, con il primo riversamento, è uscito rivelando tutto il suo grottesco.
Sono alle dipendenze di un direttore di settore, ma l'ultima parola in capitolo ce l'ha il direttore generale; infine c'è la responsabile delle comunicazioni esterne che gestiva il contatto. Ora, il primo e il secondo a volte sono in maretta, la terza deve per forza di cose affidarsi al primo, io devo fare riferimento a tutti.
Morale della favola, il primo sapeva che tipo di autorizzazioni possedevano i richiedenti, la terza sapeva o aveva un'idea di cosa volessero e il secondo decideva cosa andava fatto o no, dietro mia sollecitazione! Ma se nemmeno io sapevo che cavolo andava fatto...!!!
Insomma, è stata una tiritera di email interne nel disperato tentativo di capire che CAZZO dovessi fare (quando ci vuole ci vuole!) che mi ha avvelenato l'anima e la digestione.

E questo è quantomai sbagliato, visto che io, se le cose non le so non è che me le invento per miracolo.
Quindi dovevo solo fare spallucce e, come saggiamente consigliato dal collega, scrivere tutte le email in copia conoscenza a tutti e tre. E che poi se la vedano loro se ci sono contrasti di idee o informazioni vaghe o sottaciute.
Tra l'altro, gli stronzi del Tg2 Dossier non se l'erano mica visto il materiale, quindi manco sapevano quello che volevano... e manco se lo son venuti a prendere, ora che l'abbiamo rifatto!
Grrr...

E' tornata Chiara, che mi deve una pizza e mi ha chiesto di uscire.
Sono contento, anche perché si è letta un mio racconto e le è piaciuto.
Non ho la più pallida idea di come sia possibile che ancora non abbia trovato questo blog: oramai basta mettere tre, quattro parole chiave giuste (Vania, Ygramul, Chiara, Lucca) e tac! Salto fuori nella prima pagina.
Mah, forse l'ha trovato e se la ridacchia nell'ombra, leggendolo.
Sai come se taja poi quando si mette a rileggere il resto! ^_^

Il pc a casa è sempre guasto, io attendo una connessione migliore, e nel frattempo vi saluto.
Spero che, pur nella pochezza, questo post risponda al sollecito di Gab!
^__^
Buona vita a tutti,


GrimFang

PS: per fortuna non ci sono metastasi, ma mia zia dovrà comunque fare la chemio.
Ah, Gab, il mio collega d'ufficio si occupa della campagna di Valeriani e Zingaretti...

domenica 24 febbraio 2008

THE JACKET

Rovistavo fra i miei files quando è saltato fuori questo... Il film, "The Jacket" è uscito in Italia oramai un paio d'anni fa, quando ancora aleggiava nell'aria l'inizio della seconda guerra in Iraq e si profilava all'orizzonte quello che sarebbe stato il secondo conflitto più lungo nella storia statunitense.
Ma è un film che c'entra poco con l'orizzonte delle guerre, e molto, invece, con le domande ataviche che ci portiamo dietro: "chi siamo?", "dove andiamo?"...
E' inutile stare a sottolineare quanto abbia amato questo piccolo film sconosciuto, passato nell'ombra e sottotono, eppure così prezioso; con un Adrien Brody appena uscito dal successo de "Il pianista" e dal non-so-come-sia-andato "The village".
E' invece utilissimo specificare che questa recensione la si apprezza molto avendo visto il film in questione, mentre ci può anche rodere il culo se non l'abbiamo visto perché in parte ci sputtana la trama, ed in parte fa dei riferimenti per i quali si rischia di non capire una mazza se non si è visto il film. Ma del resto questo, forse, è più un saggio di critica che una vera e propria recensione.
Per quel che riguarda la recensione, beh, il giudizio sarebbe "Che fate ancora lì?! Alzate il culo razza di un branco di lavativi, e andate a vedervi questo film! Scattare!!".
^__^

Perché andare al cinema a vedere una metafora

Chi è Jack Starks?
Jack Starks è due cose. È giovane. È americano. Tutto il resto, qualsiasi cosa, compreso l’essere un soldato in Iraq durante i giorni duri del conflitto, lo perde all’inizio del film. Il meccanismo brillante del teaser “Avevo 27 anni la prima volta che sono morto” è l’ingranaggio ad orologeria dell’inizio, non della fine del film: non inseguiamo una storia per capire come sia possibile giungere alla fine ad una simile – paradossale – affermazione, come tra l’altro viene logicamente in mente mentre ci predisponiamo alla visione in una saletta ai margini del grande circuito, bensì lo adottiamo come punto di partenza! Si tratta, insomma, di una premessa teorica spaesante – proprio perché DEVE straniare il personaggio, come una catarsi che riazzeri la sua entità allo zero minimo, alla sua essenza metaforica – che introduce la storia, e non di una storia finalizzata a chiarire il mistero racchiuso in una simile frase.

Jack Starks muore. Si riazzera, come dicevo, e si fa uomo qualunque, John Doe della situazione che si troverà a vivere, involucro perfetto per una metafora. Ed in quattro e quattr’otto lo troviamo su di una strada ghiacciata, privo di radici e di meta, che prova a stabilire un contatto umano: presta il suo aiuto, ma viene rifiutato. L’esterno è sospettoso, impaurito, e solo chi ha il candore di bambina riesce a vedere le cose senza filtri, con la naturalezza di ciò che sono. L’uomo Zero compie azioni positive, dà e chiede aiuto. Ne riceve diffidenza, ostilità, falsa amicizia ed inganno. In men che non si dica, l’uomo Zero, questo uomo nuovo di zecca preso ed immerso nel tessuto degli Stati Uniti d’America, è vittima: viene processato, e internato in un manicomio; nel quale viene, non esiste altro termine, torturato.
Riprendiamo un momento il filo dell’esposizione. Jack Starks è un giovane americano, puro, bendisposto. Appena si confronta con la realtà americana finisce recluso e torturato. Ce n’è abbastanza per poter dire che in America non c’è posto per gli Starks? Ma qui c’è il punto di svolta della storia; qui c’è un “eppure”.
Eppure i Jack Starks, rinchiusi, presi per pazzi quando non lo sono affatto, torturati, sognano. E cosa sognano? Guardano avanti, vedono il futuro. Di più, lo vivono. E nel futuro, per loro, per quanto negativo possa essere, c’è una speranza. C’è una donna che dà un passaggio ad un tipo tumefatto in mezzo alla neve. C’è l’annientamento della diffidenza (che nasce, se vogliamo, da quella briciola di umanità che i Jack Starks hanno seminato in passato). La fine della paranoia. Certo, la lotta è dura, e la paranoia è dura a morire, ma nel sogno, pian piano, essa viene sconfitta, così come, nella realtà del tempo attuale Jack Starks opera, agisce, pensa, libera e contamina non solo i suoi compagni di prigionia (riuscendo a far ammettere ad uno dei suoi compagni che in realtà è stato solo abbandonato dalla moglie e che la sua “follia” è prettamente figlia della solitudine), ma anche parte di quello staff medico che opera la sua reclusione nella benevola convinzione che così li si stia salvando, li si stia “curando” (ma da cosa?). E questo fino all’apoteosi finale, in cui persino il medico che lo sta torturando rivela la propria umana fragilità, e la convinzione personale di aver sempre agito in positivo. Il sistema isola, previene, “cura” persone sane contro la loro volontà: tribunale ed ospedale psichiatrico sono istituzioni con gli occhi chiusi che “sperimentano” sui fragili ipotesi di “controllo uguale sicurezza”, “punizione uguale controllo”; quando in realtà è la gente paranoica, diffidente, isolata e dunque sola (la madre della bambina), strafatta di droghe, anestetici e televisione e che vive talmente in profondità la propria solitudine da restare sola anche dentro se stessa, nella famiglia, distante dalla propria carne di figlia (piazzata a guardare un televisore in salotto) quasi tanto quanto dal mondo, incontrollabilmente preda solo del proprio istinto protettivo (ah! Quanto insegna ancora oggi la madre isterica di Shining!), bene, quando è proprio quella gente ad essere ormai priva di controllo, e quindi di libertà.
Jack Starks no. È ancora libero, e dotato di quello sguardo da bambino che è pieno di, e reclama, libertà. Solidarietà. Legame col prossimo. Ed è proprio il nucleo di forza dato dal suo rapporto umano con un altro nucleo a spezzare i vincoli di solitudine che sono alla base della diffidenza e quindi della distanza. E può morire adesso per vivere in un futuro che, una volta tanto, è davvero possibile.
“The Jacket” è la storia di un uomo che cambia il mondo. Niente più, niente meno. E il suo delicato meccanismo di corrispondenze e metafore ci consegna un messaggio semplice – come tutti i grandi messaggi – che vuole suggerirci dove dobbiamo lavorare, su cosa, per poter felicemente riprendere in mano, e dare concretezza, al fondamento di ogni futuro: la speranza.

Buona visione, e, se l'avete visto, buona discussione.


GrimFang

venerdì 22 febbraio 2008

EMBARGO

Scrivo questo post dal mio bunker al primo piano rialzato dell'alberghetto che mi sta ospitando.
Due delle tre finestre sono saltate via assieme a un grosso pezzo di muro, con l'ultimo bombardamento. Ora dei sacchetti di sabbia ornano l'apertura come una trincea di prima linea.
Fuori, l'altoparlante che elargisce la sirena degli allarmi e musica, s'è incantato: è tutto il pomeriggio che trasmette
"sei tu che alzi la temperatura"
a ciclo continuo.
Non avrei mai pensato di citare Max Pezzali nel mio blog (figuriamoci un link).
Alla luce della lampada a gas sulla mia piccola scrivania, rimediata alla bell'e meglio fra quelle di questo quartier generale improvvisato, batto veloce sui tasti della mia fida macchina da scrivere Olivetti ed ogni tanto mi distraggo in cerca d'ispirazione guardando scendere i bengala dalle montagne. Il fronte è lì.
La mia corrispondenza di guerra deve passare il filtro della censura dello Stato Maggiore, atta a prevenire fughe di notizie da parte delle spie nemiche.
Non sono nemica, ma in un certo senso, spia...
Il primo divieto è stato sugli sms.
Era scontato che fosse impedito anche qualsiasi contatto fisico. Capirai...
Forse, bisognerebbe tornare con la memoria a quella telefonata.
Quando prima uno, poi l'altro caddero sulla linea del fronte. Quell'sms che forse è all'origine del divieto e del terrore dello Stato Maggiore intero.
Quelle poche righe in grado di fare un effetto simile a "The Ring".
"Ciao! Lo sai che ti ho sognata?"
TUUUUUUUUUUUUUUUUUUUU...
A volte sono detestabili i suoni della linea telefonica. Ti fanno un po' di compagnia quando alzi la cornetta e domandi cose come "Chi è il più bello?", "Chi ce l'ha più grosso?", "Chi è il migliore?" e senti ch'è libero.
Non so perché, quando faccio la terza domanda il mio telefono invece di dare libero fa un suono che sembra "Pao-lo, Pao-lo"... e non credo nemmeno sia il caso di protestare con il gestore: vuol dire che dice il vero anche alle prime due!
Comunque, sono qui, che resisto strenuamente da quando è cominciato l'embargo, ieri sera.
Una prova di muscoli duri, con minacce fisiche paventate e promesse di orribili torture ad attendermi, quali ascoltare davvero gli 883 e non sentirli cantare dalla voce di un amico.
Costretto giocoforza a raccontarvi senza raccontarvi, per svicolare le maglie della censura.
Certo, potevo chiamarvi per telefono tutti quanti, ed affidare alla cornetta le confessioni scabrose, i materiali ad alto potenziale di cui sono venuto a conoscenza, roba top secret. Ma non ho spicci, e poi non so i numeri di tutti.
Così, mentre guardo le nostre truppe attestarsi lungo la linea VenniVidiVici, penso "Ben Ci Sta!" quando mi accorgo che in fondo, se gli sms e il contatto diretto sono sotto embargo e il telefono non è praticabile, esiste comunque l'email!
Ed ecco che le mie dita sono lì a picchiettare quando giunge un messo dell'Alto Comando con un dispaccio. Questo recita, laconico
"Smetti di picchiettare o ti stacco le dita e ci gioco a shangai"
che fa il paio con il precedente che era più o meno riassumibile in "ti nebulizzo; nemmeno con la fisiologia molecolare ti rimettono insieme".
Ma sono minacce che l'Alto Comando non manterrebbe mai; al massimo mi toglie il saluto... delle armi, prima di fucilarmi.
Eppure...

...eppure facevo parte dell'Alto Consiglio per le strategie di guerra, una volta. Ma di quel vecchio consiglio oramai era sopravvissuto solo Obi-Wan-Sergiobi, ed era ancora ascoltato a tratti. Ed era proprio in nome del mio ruolo ricoperto che lui - sapendomi d'accordo su molti punti - aveva spinto l'Alto Comando a mettermi al corrente di quelle informazioni.
Ed io ero d'accordo con lui, per l'appunto.
Le manovre militari andavano fatte, era necessario. Tanto più che io, per una serie di vicissitudini della vita, avevo anche più informazioni sull'obbiettivo finale.
Non su come vincere la guerra: figuriamoci, mi entusiasmo se vinco una battaglia, ma una guerra... non ne vinco più da anni. E nemmeno, se così si può dire, per aver fraternizzato col nemico (roba che nel '15-'18 ci fucilarono parecchie persone, sul fronte austriaco).
Perché, vedete, non c'è nessun nemico con cui fraternizzare.
Beh, non c'è nessun nemico.

Così, mi ritrovo a battere a macchina questo resoconto, per aggirare l'embargo.
Dopo che una vittoria due su due al bowling del paese mi ha dimostrato ancora una volta a) quanto mi piace questo sport, che ritengo anche educativo per quelle maniche di giovani coatti che comunque lo preferiscono alla discoteca e si ritrovano a giocare sulla pista a fianco di famigliole con bambini sotto i sei anni che fanno più strike di loro (giuro!), e b) che se sono in serata potete scordarvi di battermi, belli! - Dopo che, dicevo, questa vittoria mi ha regalato un nuovo sorriso, mi sono reso conto che non potevo non mettervi a parte di questo.
Questo che avremo realmente capito solo in tre, ma che forse vi siete gustati anche voi, nel mio delirio nonsense.
L'unico modo per aggirare l'embargo, è parlare, sfogarsi, dire tutto facendolo sembrare nulla: perché anche se voi aveste capito tutto, è importante che non lo capisca una, singola, persona fra voi!
^___^
Buona vita, combattenti di trincea!


GrimFang

mercoledì 20 febbraio 2008

Un weekend in piacevole compagnia

Quante cose da raccontare, ragazzi!!!
Vengo adesso dalla rubiconda ragazza di Save The Children - che stanno infestando in questi giorni la metropolitana di Roma manco fossero un'epidemia - che vedendomi salir le scale ha timidamente accennato un 'ciao ciao' con la manina per cogliere la mia attenzione: è stata simpatica e dolce, ma non avevo proprio tempo, devo correre a laboratorio teatrale. Non so neanche se questo post riuscirò a finirlo adesso o stanotte, visto che in ufficio - ultimamente - non se ne parla proprio.

Quante cose, sono proprio gonfio di novità!
Non so da dove partire, ma devo vincere la tentazione di spararle a raffica. Tanto per cominciare, en passant, un'informazione per presa d'atto: ho mandato un soggetto che mi girava da un po' nella testa a un mio amico che vuol fare il regista, Nicola.
E' davvero un amico, perché era uno di quei famosi cinque che il 17 gennaio di due anni fa era a Villa Pamphili per la mia festa!
L'altro lato rimarchevole è che ho deciso di lavorarci in due su quel soggetto, assieme a lui, e che in esso viene citato un episodio realmente accaduto (e un po' l'intero cortometraggio lo è - ispirato - alla mia esperienza di vita) tra me e il Digia.
Ancora, proprio l'altra sera ho deciso una volta per tutte che solo un imbecille quale io sono possa, avendo IL più famoso sceneggiatore vivente in Italia come parente acquisito, evitare accuratamente di fargli leggere qualcosa di mio. Ha passato di molto gli ottanta e non mi pare il caso d'indugiare oltre. Così, cogliendo al balzo l'ipotesi ventilata (solo ventilata) di farlo venire a parlare di sceneggiatura al teatro Ygramul per un laboratorio/workshop gratuito che abbiam messo in piedi con la cricca di Elish (ve ne parlo più sotto), non solo vedrò se invitarlo a partecipare, ma in ogni caso gli farò leggere qualcuno dei miei racconti e, forse, soggetti o, ancora più in forse, l'unica sceneggiatura propriamente detta che abbia scritto.
Quindi, fine dell'imbecillità.

Adesso, facciamo un flashback bello grosso e torniamo alla motivazione del titolo.
Volevo rispondere al commento di Lyra con un altro commento, poi mi sono accorto che invece avrei scritto un post sullo stesso argomento... Infatti è stato proprio come dice lei: un weekend nella piacevole compagnia di me stesso.
L'evento cui mi riferisco è il weekend che ho passato a Ovindoli, in Abruzzo, a casa mia. Ce l'ho dal 1975, quando son nato, ed è una meraviglia: tre piani più la cantina, cui si accede con una botola nel pavimento, grande e tutta rustica. Fantastica, invidiatissima. Caretta Caretta, che è il nick di Simona, mi chiama 'maritino' da anni pur di millantare crediti sulla proprietà: io nego, ma la chiamo 'mogliettina' invocando la separazione dei beni. ^__^
Questo per dire quanto sia figa!
...la casa.
...beh, pure Simona non scherza. ^__- E' un bel tipo!
Ma torniamo a noi e al luogo di questa gita. Recentemente - parlo di un paio di mesi fa - mi è stato fatto pesare da Erika di non averla mai invitata su. Trattandosi di pura verità, e domandandomi come mai in effetti fosse trascorso così tanto tempo dall'ultima volta che ci avevo invitato qualcuno, ho provato a rimediare. Ma quel weekend lei lavorava. Così, quando è saltato fuori di farsi un weekend a sciare, mi è subito venuto in mente che si poteva andare da me; così ho esposto la proposta ed ho manovrato per farla conciliare col compleanno di Vania, che è stato l'11 febbraio.
Data nella quale io mi sono presentato a teatro come da accordi via email con gli altri, ed ho scoperto di essere solo perché tutti erano stati avvisati con un'altra email o sms, e io che avevo il pc rotto senza connessione a casa me la son presa... Non da solo, almeno. Ci son cascati anche Esther e l'altro Enrico.
Quella sera poi, visto che ero lì, avevo provato a sentire Federica (compagna di teatro) e Donata (amica di montagna) che abitano in zona. Buca da entrambe, più o meno, e peccato perché mi avrebbe proprio fatto piacere farmi una chiacchierata per conoscere meglio Federica e per raccontare gli ultimi anni a Donata.
Vabbè, pace, ad ogni modo si era organizzato il weekend sulla neve per lo scorso fine settimana. Gabriele non trova niente di meglio da fare che scordarselo e mettere per tutti una bella riunione del laboratorio/workshop per il 17. Maledizioni che s'è preso a parte, viene comunque stabilito che a sciare ci si va solo il 17 e si torna in tempo per la riunione (che tra l'altro viene spostata dall'Ygramul al Baffo della Gioconda, e anticipata di mezz'ora: ovviamente Gabriele è stato l'unico ad arrivare con più di un'ora di ritardo). Quindi, martedì scorso si fa il punto della situazione. Federica si dispiace di non poter venire perché lei va a sciare il sabato, con gli amici.
A Ovindoli.

Ora: proprio quella sera - non so davvero come spiegarmi il fatto che IO (!!!!) non l'abbia notato prima - ero rimasto esterrefatto dalla scoperta che Federica ha un gran bel culo.
Su, su, non fate quelle facce: non solo Federica possiede l'indirizzo di questo blog, ma ho anche avuto modo di scoprire che certe cose, per quanto difettino nella forma, a una donna fanno piacere! In fondo anche a noi non dispiacerebbe sentirci dire che abbiamo un bel culo.
A me, anni fa, quando me l'hanno detto, mi ha fatto piacere! ^__^
Così, salto su, piglio le chiavi di casa dalla giacca e le faccio leggere 'Ovindoli'. Restiamo a parlare un po' e si rimane che forse ci si becca su sabato.
Ora, l'idea di beccarla con un gruppo di amici - per me perfetti sconosciuti - e di sentirmi a disagio non mi sconfinferava neanche un po'. Anche perché l'unico aspetto che mi blocca, con lei, è di sentirla ancora come appartenente a un mondo veramente distante dal mio. Non so che amici ha: e se mi ritrovo in mezzo a una manica di coatti? Certo, da quel che conosco di lei non credo frequenti quel tipo di gente. Ma non si sa mai...
Così, è capitato che quella sera sia rimasto a fare due chiacchiere (proprio due) con Vania. Un po' come facevamo un tempo. Così, oltre a scoprire un paio di forchettate di cazzi suoi - cosa che non capitava da molto - abbiamo parlato anche dei casi miei, di Federica e della decisione da prendere se andare in affitto dividendo un appartamento con Erika.
Già, perché c'è anche questa novità, Erika me l'ha chiesto un po' di tempo fa. Ed io poi son giunto a una decisione, ma ne parliamo poi.
Ad ogni modo, dopo la chiacchierata con Vania - ed avendo appurato durante la serata che del laboratorio di teatro nessuno sarebbe venuto a farsi il w.e. - ripigliavo il cammino un po' rinfrancato, e deciso in fondo a salire comunque in montagna. Nei giorni seguenti, allargavo ad altri amici (Deso, Digia, Maria...) l'ipotesi di salire con me, ma la declinavano tutti. Avrei scoperto mentre ero già in viaggio che il Deso, l'unico disposto a venire, quel messaggio non l'aveva letto. Pazienza, si è poi organizzato diversamente.
Venerdì mattina mi chiama Erika per sapere che ho deciso e, mentre parlavo con lei in ufficio, la mia nuova collega mi sente parlare di fine settimana a Ovindoli. Pazzesco: si scopre che ci va anche lei col ragazzo (ed è così che ho appreso che ne ha uno). Così, se salgo (ma oramai la decisione era presa e già ero d'accordo per far accendere i riscaldamenti), mi dico, posso beccare Federica e Francesca!

Sabato mattina mi sveglio presto (strano!) e parto, con assoluta tranquillità e la sensazione che nessuno mi corre appresso. Ed è con questa sensazione che ho fatto l'intero fine settimana. Vacanza. Puro stare nullafacente che mi ha rimesso in piedi da tutto lo stress accumulato in Videoteca in una settimana e mezza, grazie a Dio.
Preparato all'idea di un vento di tramontana freddo e tagliente, ma impreparato a com'era poi realmente (lacrimazione istantanea dopo cinque secondi, congelamento della mano per aver tenuto il telefonino per dieci), arrivo su, e la prima cosa che faccio è avvisare Federica che ci sono. Poche chiacchiere e capisco che no, non la vedrò in montagna: è a rimorchio degli amici e non gli va di imporgli programmi. Niente, sono messo da parte, peccato.
Mando un sms a Francesca (che avrebbe passato il w.e. anche lei lì), ma da come risponde capisco che la sera non ci saremmo visti - e il giorno dopo io andavo a sciare a Campo Felice... Pazienza anche lì.
Meglio, non ci tenevo troppo a incontrare il suo ragazzo.

Così, nonostante da Roma mi fossi portato il portatile (dopo averci caricato su anche un po' di film porno ^__-) e il faldone coi miei racconti ed i progetti di giochi da tavola da completare, sabato ho passato il pomeriggio a rilassarmi senza fare un cazzo, parcheggiato davanti alla televisione. Trattandosi di una scelta, non è capitato - come a volte capita - che abbia vissuto quel fancazzismo con un certo senso di colpa perché potevo fare altro: l'unica cosa che mi pesava, in effetti, era il pensiero che a una certa i negozi chiudevano, e se non volevo morire di fame mi toccava uscire al freddo e al gelo.
Così, con molto dispiacere, ho mollato "In fuga per tre" nel momento più bello (ma tanto lo so a memoria) e mi sono dato alla spesa.

Per cena invece, tanto per farmela andare di traverso, ho ascoltato la Gialappa's commentare la partita Juve-Roma. Vista la noia e l'umore scuro, dopo aver fatto un altro po' di zapping in tv, ho preso e sono uscito. Passeggiata delle undici e passa, per andarmi a prendere qualcosa al bar (che chiude più o meno a quell'ora quando ci sono i turisti), le sigarette in macchina e un po' d'aria.
Anche a quell'ora un vento della madonna, ovviamente.
Vento che ho provato a registrare, ottenendo come risultato il parziale congelamento della mano sinistra, impegnata a reggere il telefonino senza guanto. ^_^
Ragazzi, faceva così freddo che non sono riuscito ad articolarla bene per almeno cinque minuti, dopo averla infilata a fatica prima nel guanto e poi nella tasca.
Ho girato ancora, cercando almeno la compagnia di un cane randagio, come spesso faccio nelle mie passeggiate notturne ovindolesi, ma quando l'ho trovati dopo un minutino e mezzo di giochi e di coccole hanno deciso che era tardi e si sono dati lungo un pendio.

Così, quando la mattina dopo alle otto e mezza è suonata la sveglia per raggiungere gli altri di teatro per sciare a Campo Felice i pensieri che mi hanno attraversato la mente sono stati, in ordine sparso: ma chi me lo fa fare co' sto freddo; non ho neanche controllato se ho la tuta; mi devo affittare tutto; mi devo sciroppare tutta la strada fin lì e ritorno; devo chiudere casa; non posso andare dopo perché devo tornare a casa per chiudere tutto; ho un gomito che fa contatto col piede.
L'ultima argomentazione è stata definitiva.
Sms di scuse e torno a dormire!

La giornata l'ho passata a passeggiare, a prendere il sole al belvedere ed a svolgere tutte le piccole incombenze relative al chiudere una casa di montagna.
Quindi, ritorno a casa.
Viaggio estremamente piacevole, anche perché m'ero portato un po' di cassette che non sentivo da tempo: mi chiedo ancora come mai all'epoca non abbia mai fatto una partita di ruolo con colonna sonora degli Skyclad o dei Velvet Viper... ^__-
Al casello di Roma mi si affianca il pullman del Partito Democratico, di ritorno da Pescara dove Veltroni ha inaugurato la campagna elettorale.
Piccolo excursus politico: io sono di sinistra, progressista. Sono stato iscritto prima alla F.G.C.I., poi alla Sinistra Giovanile, poi ai Ds. Ho votato per Di Pietro un paio di volte e adesso aspetto di vedere come si comporta il PD prima di aderire. Ma in tutto questo, sono sempre stato un utopista anarchico di fondo! Strano, eh?
Ma in realtà molto meno di quanto potrebbe sembrare.
E poi dalle chiacchierate con Edo mi trovo concorde anche con alcuni punti dei radicali. Ma forse è più corretto dire che mi trovo concorde con Edo. ^__-
Ad ogni modo, quel che volevo dire è che è notizia recente che Berlusconi abbia detto "gli italiani non saranno così ingenui da votare la sinistra per la seconda volta".
Questo, a mio modo di vedere, significa tre cose:
1) se gli italiani sono stati così ingenui da votare lui due volte, allora vuoi vedere che abbiamo davvero qualche chance di vincere?
2) se questo è il miglior argomento politico che gli è venuto in mente di scegliere per iniziare la campagna elettorale, abbiamo serie possibilità di vincere.
3) infine: se se ne esce con una frase così, di certo non ostenta più quella sicumera che aveva dopo la caduta del governo. Questo significa solo una cosa: in meno di due settimane, Berlusconi è passato dal sentire la vittoria in tasca all'aver paura di perdere.
Adesso: io mi sto zitto per scaramanzia...
^___^

Tornando a noi, la giornata mi aveva talmente messo di buon umore che sorridevo così, senza motivo, per la sensazione di piena felicità che mi pervadeva. E mi spizzavo la vicina di macchina nella coda al casello.
Quindi, dovevo passare a prendere Erika alla stazione Tiburtina per andare poi insieme alla riunione.
E con Erika, con estrema tranquillità, ho affrontato il discorso sull'andare in affitto. Discorso che si è protratto poi nei giorni seguenti in modo forse un po ' più doloroso.

Il fatto è che, mentre ero in montagna, l'ipotesi dell'affitto congiunto si era trasformata in alcune chiare, semplici e ferme certezze. Roba rara, conoscendomi.
Semplicemente sentivo, e sento tuttora, che l'affitto/convivenza in due con lei non mi andava bene.
I motivi sono tanti, alcuni più chiari altri meno, ma tutti talmente limpidi nel loro insieme da rendere questa certezza una scelta tranquilla. Pur consapevole di andare un po' a ferire Erika, che su simili questioni è molto sensibile (anche perché sembra un rifiuto, ed i rifiuti son sempre duri da digerire), ho cercato con tono pacato ed i miei argomenti di farle capire perché io adesso come adesso senta il bisogno di condividere casa in tre.
Il primo, imprescindibile motivo, è quello di evitare, come qualcuno ha detto, le "dinamiche di coppia senza i vantaggi della coppia". Dividere la vita in due, adagiarsi/adeguarsi sui ritmi e le idiosincrasie dell'altro è uno svantaggio enorme - a mio giudizio - se non è poi nemmeno finalizzato all'idea di compiere un percorso di vita insieme. Ogni presenza estranea all'altro diventa immediatamente un'invasione, cosa che ovviamente non capita se si è in tre poiché ci si pone comunque in un'ottica diversa: per quanto si possa essere amici, in tre si è comunque un nucleo non assimilabile a una famiglia e questo comporta la piena coscienza, in ogni momento, del fatto che si condivide uno spazio, insieme, non una vita.
Sembra troppo filosofico/psicologico?
Ad Erika sì, a me assolutamente no.
Io esco da una situazione familiare, ed ho il dannato bisogno di sentirmi extra-famiglia, non di passare da un tetto all'altro, da un'ala materna a un'altra. So perfettamente che io mi adagierei su alcune cose di me che lei conosce e lascerebbe tranquillamente correre, e viceversa. Instaureremmo una vera e propria dinamica familiare. Ci conosciamo troppo bene. E dopo un paio di mesi la mia casa mi sembrerebbe una gabbia.
No, ho bisogno anche di un qualcuno/a, una terza persona, in grado d'incasinare e di rimettere in gioco tutti i meccanismi. Una persona che magari faccia un cazziatone quando serve, un'alterità in più con cui relazionarsi. Anche per fare in modo che, se a uno gli rode il culo e non vuole parlare, l'altro non si ritrovi improvvisamente solo/a. Se si è in tre, almeno si è sempre minimo in due a poter condividere la voglia di stare assieme.
Erika ha, ovviamente, più esperienza di vita in comune, anche se le sue sono state convivenze.
Ma ha anche un carattere un po' protagonista, ed è difficile che abbia voglia di condividere i suoi spazi con 'estranei'.
Sa che con si potrebbe permettere certe confidenze, libertà dovute ad un condiviso e non sessuato senso d'intimità. E sotto certi versi sbaglia, anche.
Di certo non se le potrebbe permettere con altri.
Ma, ed è in questa la grande differenza, Erika - per sua stessa ammissione - in realtà cerca una casa da sola; ed io sono un'aggiunta, una comoda variante cui appoggiarsi per raggiungere meglio quello che è comunque la sua meta: l'indipendenza.
E cosa c'è di meglio di avere anche un confidente/consigliere a portata di mano?
Ma io non cerco quell'indipendenza, né mi va di dividere quella che è una meta sua. Io cerco un'indipendenza diversa, fatta della libertà e della gioia di condividere e confrontare i miei spazi con quella degli altri. Quasi una casa dello studente.
E voglio assolutamente evitare di sentirmi in gabbia, catturato come un canarino consulente cui rivolgersi ogni volta che si ha un tiramento di corda giusto perché sono lì sottomano. E' brutale, se volete, ma so che Erika mi legge quindi me ne carico le conseguenze.
Così, nell'inconciliabilità dei nostri punti di vista (cui tra l'altro io metto dentro anche fattori di affidabilità/abbordabilità economica, tipo che se uno dei due se ne va lascia nella merda l'altro), per ora sembra che o troviamo un terzo compatibile con entrambi o ciascuno per la sua strada. Il che vuol dire che invece di trovarmene uno, di coinquilino, ne dovrò trovare due.
Pace.

La riunione, non sto a raccontarvela: i punti curiosi salienti sono il fatto che da oggi Vania, Mauro, Massimo e Roberto sono proprietari di un'edicola in zona San Cleto (e a loro lascerò - credo - la mia lunga lista di acquisti in edicola, con una punta di rammarico per il mio edicolante, di cui ero cliente affezionato) e che l'argomento del laboratorio/workshop (al di là degli interessanti incontri con alcuni relatori esterni - domenica 24 alle 16:00 al teatro Ygramul viene un esperto a parlarci di rebus ed enigmi) ha in fondo un possibile, per quanto remoto, sbocco pratico. Si tratta, infatti, della stesura di alcuni soggetti (otto più la puntata pilota) per una serie televisiva per il Giappone commissionata dal produttore di una cosina chiamata "Ghost in the Shell", notizia che a qualcuno di voi farà mancare qualche battito cardiaco.
Il metodo, è costruirli giocando. Prendere i ruoli dei protagonisti della serie, approfondirli nel gioco legandoli alla tematica 'fantasmatica' della serie. Che si potrebbe riassumere con un 'fantasmi giapponesi a Roma'.

Tornato a casa pieno e felice, mi aspettava una notizia/mannaja, come quella che hanno trovato a mia zia un grosso tumore maligno in mezzo ai polmoni.
Per ora, credo di non averci fatto ancora i conti, ma lì per lì nemmeno questa pessima nuova è riuscita del tutto a togliermi il buonumore.
Atteggiamento positivo che è continuato lunedì, quando sono andato dallo psicologo, e poi lunedì sera a casa, quando - presenti per coincidenza anche la sister Sabrina, il piccolo Bussolotto Niccolò e il papà Matteo - ho finalmente detto ai miei che sono tre anni che faccio teatro e ho comunicato anche la mia intenzione di provare ad andare in affitto (non in quest'ordine ^__-).
Sembra che l'abbiano presa bene. Su entrambe.
Poi, capita che un'amica ti inoltri anche un link che ti spedisce in un altro mondo.Quando ti prende un tuffo al cuore e ti ritornano su immagini di un passato in fondo recente, che ha tutto il sapore degli anni verdi, dei rimpianti, degli amici lasciati indietro... Com'è successo a me, guardando qui. Il filmato è fatto da Cesare.
E, a parte che mi si vede solo in un momento in cui, col senno di oggi, solo io potevo essere quello che faceva quella cosa lì (curiosi, eh? Andatevelo a vedere), è pieno di facce con cui i contatti si sono diradati, o persi. L'effetto magone era garantito, ma in più c'era una sorta di matura consapevolezza che mi rendeva orgoglioso di quel passato, continuando a farmelo sentire vicino, presente. Non distaccato da me.
Bello.

Poi, ieri, andando a lavoro, ho beccato Sharom e Serena.
Coincidenza pazzesca, che mi ha fatto molto felice, riportandomi improvvisamente un po' in Umbria, ai giorni di quel weekend così recente.
Bello anche questo.

E ieri sera, al laboratorio teatrale, abbiamo affrontato tre cose importanti e ricche di spunti e novità, e Federica ha tenuto a scusarsi per non esserci incontrati sabato, addossando le responsabilità agli amici (che in parte si confermano un gruppo un po' esclusivo), cosa che ovviamente mi ha fatto piacere.
Ma quando poco dopo - dopo aver un po' scherzato in maniera fisica e molto rilassata - mi sono trovato a farle un massaggino, qualcosa non ha fuunzionato. Non so, la chimica non è scattata (anche se tenevo le reazioni sotto controllo) e lei s'è anche dimostrata molto scettica sulle mie capacità tattili, nonché ha mostrato molta paura che le potessi in qualche modo far male.
E lì s'è chiusa come una saracinesca.
In parte, peccato.
Con questo, si chiude il rapido resoconto di questi giorni in mia assenza dal blog.
Stasera vado a casa di Viviana per una birra dopo cena: ci rivedremo dopo anni, nonostante lei sia tuttora - non so più quanto realmente o nominalmente, sono cambiate molte cose - la mia migliore amica.
Coincidenza assurda, Davide - uno dei quattro autori della sceneggiatura di "Appuntamento al buio" - un paio di giorni fa era a cena a casa sua, perché conosce la coinquilina.
Chissà cosa mi riserva la serata...
Baci ai pupi,


GrimFang

venerdì 15 febbraio 2008

De Osmosis

Sopravvissuto alla prima settimana.
E' tutto quello che posso dire.
Mi sento stanco, svuotato, in fondo contento di aver saputo reggere all'impatto (dal quasi fancazzismo all'oberazione pressocché totale), ma anche con un fondo di amarezza. Forse è rimpianto per i bei tempi perduti.
Quando potevo mettermi anche a scrivere i miei soggetti e le mie sceneggiature...
Non scrivo più sulla mailing list delle cazzate, ad esempio, e nemmeno faccio in tempo a leggere quanto hanno scritto gli altri. E la posta si accumula.
A casa, poi, arrivo che mi sento un po' uno straccio, e decisamente mi pesa il culo: capita così che resto a fissare il monitor anche solo in attesa di capire che cosa voglio fare: riordinare le mie cartelle di musica o mettermi a scrivere il romanzo? Scrivere i racconti per RiLL o le sceneggiature dei fumetti? Scrivere il copione di teatro o lavorare sui prototipi dei giochi?
E' bello avere scelta, è stressante non saperla fare.
Se poi ci si mette anche tua madre coi pippozzi sul lavoro e l'importanza di essere uno sistemato, tutto diventa più pesante. E persino stare alzato la notte a scrivere diventa quasi un calvario (meno male che s'è svegliata tardi, perché prima stavo vedendo un film porno ^__-).
Erika m'ha chiesto di andare a vivere assieme, quest'anno. Cerca un amico con cui dividere l'affitto. (Non fate confusione, Erika con la K)
Devo prendere seriamente in considerazione la proposta. Non solo per l'esperienza, non solo per staccarmi dalla famiglia e imparare a cavarmela da solo, non solo per l'indipendenza o la lezione sul convivere con persone diverse da te (in questo caso, molto diversa).
No, soprattutto per sottrarmi a quella che è l'osmosi con la mia famiglia.
Col mio psicologo è saltato infatti fuori questo discorso: la mia incapacità a distaccarmi dalla famiglia, ovvero a sentirmi individuo a parte. Adesso scusate se sto banalizzando tutto, ma il succo è il seguente: se non riesco a scindere quello che è il piano affettivo da quello che è la mia personale esistenza, qualsiasi cosa io faccia mi sembrerà di dare una coltellata alle persone cui voglio bene.
In pratica, qualsiasi cosa venga criticata della mia esistenza (cioè più o meno tutto, senza scherzare troppo) mi torna indietro come una coltellata a me, perché in qualche modo sento di aver 'tradito' quel qualcosa di enorme ed indefinito che è La Famiglia.
Dietro questo ragionamento c'è quello per cui un padre di famiglia di basso livello culturale può pretendere che il figlio diventi, ad esempio, avvocato; il figlio può ribellarsi - e in questo modo affermare la propria autonomia - scegliendo magari di fare l'ingegnere. Dopo il malumore e lo scontro, però, il padre può prendere atto che in fondo, magari, l'ingegnere se la passa come, o meglio, dell'avvocato. E può concludere che può 'essere fiero' (scusate, ma a quest'ora non mi viene in mente un altro termine) del figlio - ovvero riconoscerne l'autonomia e l'indipendenza.
Questo però non accade nelle famiglie di medio/alto livello culturale, nel quale i genitori mai si sognerebbero d'imporre (ma anche solo d'indicare) la strada professionale ai figli. Questo però non toglie l'ansia genitoriale che tutti i genitori provano, che qui si trasforma nel più vago 'ti devi sistemare'.
Bastardo, bastardo, bastardissimo concetto.
Perché il 'ti devi sistemare' non offre termini di paragone. E' vago, contiene tutto e nulla, e non può essere contrastato. Non ti puoi opporre. Non puoi definirti rifiutando quello che 'i tuoi hanno programmato per te'. Perché non hanno programmato nulla, anzi. Il lato bieco di questo concetto bastardo è che qualunque cosa tu faccia, non va bene. Perché ci sarà sempre qualcosa di meglio. E questa è storia di vita vissuta: all'università, il primo voto fu un 23.
Poi 28. Poi 30.
Non bastava: volevano il 30 e lode.
Al quarto esame presi trenta e lode. La frase che pronunciò mia madre alla notizia fu
"Stronzo! Lo vedi che se t'impegni ci riesci?"
Non so se riuscite a comprendere quanto sentii pesare ed echeggiare la prima parola. E da lì, lo sconforto: a che serve impegnarsi, riuscire, se poi la ricompensa è sentirsi dare dello stronzo? Tuttora non sono laureato, non sono più iscritto da due anni e se lo fossi sarei al quindicesimo anno di università. Su cinque che durava il mio corso di laurea.
E quello che credo di aver finalmente capito è che il mio non laurearmi è stato - e in parte lo è ancora - il mio 'ribellarmi', il mio cercare spasmodicamente di sottrarmi a quella 'gabbia' che mi sento addosso, che in realtà è il peso delle aspettative indefinite che i miei nutrono su di me.
Non importa che l'unico danneggiato in realtà sia io.
Non si riesce, grazie a quel concetto bastardo, a passare dalle aspettative che hanno gli altri su di te a quelle che hai tu su te stesso.
Non c'è rimedio.
Solo crescere e capire intimamente questa cosa: una volta che ne hai preso atto, il tuo istinto ti porterà ad elaborarlo per arrivare alla necessaria constatazione che tu, sei una cosa, i tuoi affetti, un altra. E viaggiano in parallelo, non in osmosi.
Per questo mi può servire andare via da casa: fuori da quell'osmosi che continua tuttora a criticare tutte le mie scelte, forse avrò il tempo e la tranquillità per guardare solo a quelle che sono le mie esigenze e le mie aspettative, cementarle e renderle forti.
Abbastanza da reggere senza problemi ogni volta che, avendo a che fare coi miei, le vedrò perennemente mette sotto pressione. Come vedo capita con mia sorella, che in quanto sistemarsi non ne ha sbagliata una.
Dunque, a quest'ottica dei miei genitori non si sfugge se non comprendendo che devo centrare me stesso, e capire che sono ansie loro, che non riguardano me. Scoprire, quasi d'un tratto, che non mi toccano più. Diventare grande.

Ho una nuova collega. Ve l'avevo detto. Francesca.
Ha preso servizio lunedì, è giovane e pure carina, ma fidanzata, scoperta dell'ultimo minuto. E, colmo dei colmi, abbiamo scoperto che entrambi domani saremo ad Ovindoli, dove io ho casa.
Senza contare che su ci sarà anche Federica, ragazza molto carina che fa teatro con me.
Di tutti gli altri cui avevo esteso l'invito per il weekend, ci sarà solo Momar, domenica. Anche Erika ha dato buca.
Un po' mi spaventa l'idea di farmi il weekend praticamente da solo, un po' mi sono rotto il cazzo di preoccuparmi; e visto che le previsioni danno sole a manetta e che è anche un gran modo di cambiar aria, dopo una settimana stressante, mi sa proprio che salirò. E a culo tutto il resto.
Accuserò la solitudine, ma potrò sempre vedermi l'ispettore Barnaby su La 7, e magari portarmi il portatile che - miracolo dei miracoli - dopo mesi che ho formattato l'hd finalmente ha deciso di farsi reinstallare un sistema operativo. Ma anche questo ve l'avevo detto.
Cavolo, la stanchezza mi fa cominciare a ripeterminciare a ripeterminciare a ripeter...
Buona viat!!

...ovviamente era 'vita'...

^___^


GrimFang

giovedì 7 febbraio 2008

Domani è una settimana

Il primo post del secondo centinaio (non si può dire sia il primo del secondo anno del blog, in effetti) non poteva che essere un omaggio ai miei lettori. Spero l'abbiate gradito, nonostante le sei pagine di lunghezza non si adattino poi così tanto alla struttura di un blog: ho cercato di allegarlo altrimenti, ma proprio non ci sono riuscito. Se qualcuno di voi sa come posso fare, mi dia una voce, così se vi voglio allegare altre cose magari mi riesce più facile.
Quello, per chi non dovesse averne letto su questo blog, era il racconto arrivato finalista al trofeo RiLL, l'anno scorso. Non credo di aver infranto nessuna regola del trofeo, pubblicandovelo qui, quindi l'unica cosa di cui mi devo scusare è l'estrema lunghezza del post che ne è risultata.
Adesso, finalmente, anche quelli di voi che non avevano mai letto niente di mio sono in grado di giudicare (paraculo, eh? Vi posto un racconto arrivato in finale, mica quello bocciato al primo giro! ^__-) o se non altro, di avere le idee più chiare quando vi parlo di quello che faccio.
Se non altro, d'ora in poi, potrete dirmi legittimamente che sono uno scrittore cane! =)P

Anche quest'anno vorrei provare a partecipare a RiLL (e magari anche voi, c'è tempo fino ad aprile, leggete qui), cercando il più possibile di fare tesoro - ovviamente - di quanto accaduto l'anno scorso. Se "Una favola di Buona (Eterna) Notte" è stato trombato alla prima tornata, certamente non sarà il modello di riferimento, mentre per quel che riguarda "Mini Mart" devo tener da conto tutte le annotazioni positive (ben scritto, interessante il modo di tenere il punto di vista del personaggio, coinvolgente) e soprattutto le critiche (non originale, essenzialmente).
Pertanto, anche e soprattutto in quest'ottica, fate piovere commenti a profusione sul mio post: è solo dal confronto con gli altri che posso ottenere quelle indicazioni che mi consentiranno di tenerlo a mente prima e di dimenticarlo poi! ^__-
Ovviamente, io non posso dirvi nulla delle idee che mi bazzicano in testa, pena squalifica.

Intanto, si avvicina la fine della prima settimana in videoteca, settimana in cui - diciamocelo - mi son preso un sacco di spazi per me che probabilmente non potrò prendermi in seguito.
Tanto per cominciare, adesso come adesso, la novità più succosa è che ho una collega neoassunta: Francesca.
Giovane e carina, romana con origini campane, e soprattutto con la caratteristica di avere la postazione accanto alla mia, per cui adesso che sto scrivendo sto un po' strizzando che possa sbirciare e scoprire che sto parlando di lei.
La cosa fondamentale per me, però, è che sia una buona collega: disponibile a incastrarsi (... ... malpensanti maledetti ^_^) con gli orari, i piani di ferie e con la quale non diventi problematica la coesistenza.
Bene, sembra che sia così! ^__^
Carina, umile, disposta ad apprendere (e quindi a togliere grane a me) e soprattutto disposta ad arrivare in ufficio la mattina prima di me, consentendomi ancora per un anno di svegliarmi alle nove! ^___^
Meglio di così...

Un'altra notizia breve: il pc con internet a casa ha deciso di sgarruparsi, ma per una curiosa coincidenza di tempi sono clamorosamente riuscito, dopo mesi di tentativi infruttuosi, a reinstallare il sistema operativo sul mio portatile.
Incredibile a dirsi, l'evento è successo proprio al ritorno a casa - ieri - dal fallito tentativo di farmelo sistemare qua a lavoro: i nostri informatici hanno alzato le mani, io ho rifatto quello che avevano fatto loro e a me è partito.
Tocco del padrone?
Adesso cercherò di piazzare la rete internet su quello, per evitare di racchiudermi in questi attimi angusti di pace prima del ritorno a casa...

Ok, stacco qui che sono in ritardo.
Buona giornata a tutti!


GrimFang

MINI MART

La sveglia fu particolarmente fastidiosa.
Stavo facendo un sogno bellissimo, ero al MiniMart con tre o quattro poppute pinup stile conigliette di Playboy che pubblicizzavano una nuova crema corpo idratante, o qualcosa del genere. Be’, avevano appena cominciato a fare la seconda passata e una di loro, Bunny, aveva appena detto “Che dite ragazze, glielo facciamo un trattamento col corpo?” quando quella bastarda ha suonato.
‘fanculo, mi sono tirato a sedere sul letto bestemmiando e l’ho spenta con un sonoro cazzottone.
Sono rimasto abbrutito e brontolante sulla sponda del letto, poi a tentoni ho cercato il telecomando delle persiane. Fuori era mattino pieno.
A quel punto avevo due scelte: potevo avere davanti un giorno del cazzo o una buona giornata.
Optai per la seconda: mi misi in testa il cappello di Pippo, quello con le orecchie lunghe che ti scendono sulla faccia, e mi andai a lavare.
Io ho questa teoria: che quando ti alzi la mattina sei tu a scegliere le tue giornate.
Insomma, se ti disponi bene, la giornata non può andare di merda più di tanto. A patto che ci siano giornate in cui tu deliberatamente decidi che ti girano i coglioni. Pensare di avere sempre solo giornate positive non funziona.

Mi chiamano Marshmallow, anche se mi chiamo Mark, o Marcus com’è scritto sui documenti.
Vivo a Chattabalooga, un buco del culo di posto che ha come principale attrattiva il centro commerciale Mini Mart sulla Lincoln Avenue, che sarebbe anche l’unica strada decente del paese, da quando Angus, il tipo che si occupava delle sistemazioni stradali, è morto. Insomma, è l’unica dove ci puoi andare via dritto a cinquanta miglia con su una bella cassetta nell’autoradio.
Lì al Mini Mart ci puoi trovare di tutto: dai generi di prima necessità al paradiso del superfluo. E non finisci mai di scoprire nuove cose: io e Stan – il mio migliore amico – l’altro giorno ci abbiamo trovato una poltrona col vibromassaggiatore. No, non una di quelle sedie che vibrano, proprio una poltrona con una taschina sul sedile, che dentro c’era proprio un vibromassaggiatore. Un cazzo di gomma, insomma.
Quindi, siccome a Chattabalooga non c’è un cazzo da fare, io e Stan tutti i giorni andiamo al Mini Mart.
Lavoriamo lì, be’, si può dire così.
Intendo, a nessuno dei due piace stare sempre a fare le stesse cose, quindi va a finire che si cambia spesso. Tanto, almeno questo, non si può dire che a Chattabalooga il lavoro manca.

La colazione è un momento fondamentale della giornata. Non puoi sperare di avere una bella giornata se non fai una buona colazione.
Quindi, dopo aver messo su una maglietta bianca e la mia camicia a scacchi blu preferita, in testa sempre Pippo, mi cucinai due belle uova fritte su pane in cassetta, bacon, un tazzone di caffè patriottico e tirai fuori dalla scatola due o tre donuts dell’altro ieri.

Potendo scegliere – siamo in un paese libero – ho preso una Mustang.
Morde la strada come poche, e dà delle belle soddisfazioni: non si ferma facilmente e fa un sacco di miglia all’ora, a tavoletta. Semmai decidessi di andarmene da questo posto.
L’ho presa blu, che ormai dovreste aver capito che è il mio colore preferito. E ha due righe bianche parallele che la percorrono dalla testa alla coda. Una figata.
La tengo in garage, ma ci tengo a pulirla all’aperto almeno una volta alla settimana.
Ora che ci penso – mi viene sempre in mente ma poi me lo dimentico – devo ancora darle un nome.

Fuori dal garage, dopo aver controllato a destra e sinistra, presi giù per Cypress Street verso la Lincoln, deserta.
Il negozio del signor Drummond, all’angolo, aveva ancora la porta aperta.
Gran bel negozietto, uno di quei locali dove si vede l’impronta del calore umano.
Uno di quei posti dove – ci vado sempre a prendere quello che mi serve su a casa – tutto ti dice qualcosa del proprietario. È un buco, saranno venti metri quadri, ma ti raccontano del signor Drummond: di un omino sui settanta che ripone con amore le merci sugli scaffali, che ama l’odore delle caramelle gommose nella boccia di vetro sul bancone, che ama il sole che sbatte sull’asfalto dell’avenue e gli riscalda il locale l’estate…
Eh, già, negozietti così vengono sempre più ignorati nell’epoca dei supermarket e dei centri commerciali. Adesso è deserto come Chattabalooga.
E persino io sto andando al Mini Mart.

Spingo la Mustang sulle corsie deserte, passo oltre la Chrysler abbandonata e arrivo all’incrocio con Washington Avenue, che chiamarla Avenue è stato un eufemismo, almeno la Lincoln finisce sulla statale.
Passo la piazza del municipio, tiro dritto.
Ci sono due figure che attraversano la strada.
Sterzo, le tiro sotto.
Le avrei ignorate, ma una dei due, la donna, aveva un accostamento orribile: gonna arancione e giacca verde pisello. Pessimo gusto.
Rallento, controllo se la Mustang s’è ammaccata nell’impatto.
A lato della strada c’è un uomo vestito da poliziotto che agita le braccia. Accosto. Abbasso il finestrino.
“Sì, agente?”
Un secondo dopo il poliziotto cade a terra con un proiettile nella fronte.

Il Mini Mart l’hanno tirato su dall’altro lato della città, quello più vicino alla statale.
Mossa furba, perché lì ci sta anche la fermata dell’autobus e c’è anche – ma l’hanno spostata dopo, se mi ricordo bene – la stazione dei Greyhound per Milwaukee.
Davanti c’è un grosso spiazzo sterrato, ci dovevano costruire chissà che cosa ma adesso è abbandonato. Come ogni volta, mi diverto a far girare la Mustang sullo sterrato.
Poi taglio la Lincoln e arrivo al parcheggio del Mini Mart. Ci sono diverse macchine, ma io ho il mio posto particolare.
Fermo la Mustang sotto la grossa rampa marrone delle scale di emergenza, a fianco all’ingresso per gli impiegati. Scendo, tiro fuori le chiavi e mi dirigo verso la bianca porta antipanico. Le infilo nella serratura, giro, sblocco la maniglia e apro.

Dentro, lo stesso deserto di Chattabalooga.
Mi prendo il camice da lavoro dalla rastrelliera, saluto Dan, tiro dritto alla rampa delle scale mobili – ferme – e arrivo al primo piano. Supero Daisy, Linda, Elaine (ma saluto solo l’ultima) e arrivo alla rampa per il secondo piano. Prima di salire, però, tiro dritto fino al bar, passo dietro al bancone e mi verso un po’ di caffè caldo nella tazza bianca e gialla con le api e le margherite, afferro al volo una ciambella ancora calda dalla scatola di cartone, saluto Stan che sta armeggiando con la serranda del negozio anche lui con una ciambella in bocca e gli faccio cenno di raggiungermi sopra.
Al secondo piano, poso la tazza sul ripiano bianco del tavolino tondo dove mi fermerò come al solito a finire la seconda colazione, e vado verso la serranda elettrica del mio negozio. Sulla sedia girevole del negozio del barbiere, che mi dà le spalle, c’è quel gran pezzo di merda del mio capo.
Resto un po’ a guardarmelo sogghignando, poi tiro su la saracinesca.

Il mio regno.
Fucili da caccia, fucili a pompa, pistole, mitragliette, persino un M16 dietro la sua vetrina, ricordo di quando il bastardo faceva parte dei marines. E proiettili di ogni specie, coltelli, e tutta l’utensileria di un negozio di armi ben fornito.
Mi piace il mio lavoro.

Dopo aver aperto il negozio, torno alla mia tazza di caffè.
Parte la musica di sottofondo del centro commerciale, Stan deve aver dato la corrente. Oggi c’è un lento brano country.
Meno male, ieri Stan aveva messo i Sepultura e m’era venuto mal di testa…

Stan mi raggiunge salendo a grandi falcate la rampa della scala mobile.
“Allora Marsh, come va?”
La mio occhiata e il cappello di Pippo gli chiariscono la situazione.
“Dormito male?”
“Svegliato male.”
Stan poggia la sua tazza sul tavolino, e si siede sulla sua sedia.
“Stavo sognando tre conigliette di Playboy che mi spalmavano il corpo di essenze profumate, e la sveglia del cazzo ha suonato proprio quando avevano deciso di spalmarsi loro su di me…”
Stan sorride. È la cosa che più mi scalda il cuore, vederlo sorridere.
Non dice molto, ma è quello che ci lega a rendere speciale persino il silenzio. È il mio migliore amico, be’, l’unico amico.
In quel silenzio, c’è tutta l’intima comprensione di due esseri vicini, simili e affini. In quei momenti siamo come due eletti che governano il mondo, perché c’è qualcosa di semplice e talmente speciale al tempo stesso, che nessuno al mondo potrà mai capire.
E tantomeno condividere.

“Marsh, qual è il tuo ricordo più bello?”
“Uh?”
Era tipico di Stan uscirsene con queste domande a cazzo per movimentare la conversazione.
“Dai! Hai capito, qual è il tuo ricordo migliore?”

Da basso venne un rumore di lattine che rotolavano.
Io e Stan ci tirammo in piedi e guardammo giù dalla balaustra. In mezzo all’atrio del centro commerciale una figura era andata in qualche modo a sbattere contro la pila dei lubrificanti per auto e aveva fatto cadere un barattolo.
“Eh no, cazzo!” – proruppe Stan – “Ci ho messo una settimana a tirarle su bene!”
Come al solito esagerava, ci avrà messo un paio d’ore al massimo, ma si diresse a grandi passi verso il mio negozio, e ne uscì poco dopo con un fucile di precisione. Sollevai un sopracciglio, mentre Stan si affacciava, prendeva la mira e sparava.
La figura fece una mezza capriola all’indietro, mentre parte del suo cranio andava a decorare il pavimento.
“Siamo chiusi!” – gridò Stan.

Non so, forse l’occhio mi ci cadde per caso, ma mentre Stan si chiedeva come cazzo era entrata, mi parve di riconoscere quel corpo steso sul pavimento.
“Hey, quella non era Daisy Arbuckle?”
Stan rimase di sale. Non immaginavo, non ricordavo nemmeno che avevano fatto il liceo insieme. Non potevo sapere.
Stan era diventato improvvisamente pallido. Si mise seduto. Era chiaro che non aveva il coraggio di guardare giù dalla balaustra.
Oppure aveva appena realizzato chi aveva visto per un istante nel mirino.

“Daisy è stato il più grande amore della mia vita.”
Se ve la racconto io, sembrerà sicuramente banale, ma detta come la disse Stan, questa frase significava davvero le tante cose che racchiudeva.
Era piena di affetto, e di ricordi. Piena di quel legame speciale che mi univa a Stan, e che quindi mi rendeva, in parte, parte di quei ricordi. Daisy era ora come un’assenza in quella che avrebbe potuto essere l’affermazione “noi tre”.
“Cazzo.”
Stan ora sedeva sulla sedia di Marsh, e Marsh sulla sua. Tirò via, più lontano da sé, la tazza del caffè – la mia – che gli stava davanti. E capisco che non aveva nessuna voglia di sollevare lo sguardo verso il suo amico leggermente soprappeso, con l’aria mortificata da cretino – come se lui c’entrasse qualcosa – e in testa un ridicolo cappellino con Pippo.
Quando parlò il suo tono era funebre e dolente.
“E dire… t’avevo appena chiesto il migliore dei tuoi ricordi… be’, il mio era lei.”

Mi sentivo impacciato.
Non sapevo come consolare il mio amico, non ne avevo la più pallida idea.
Stan non piangeva. Non ce l’avrebbe fatta. Nemmeno io ci riuscivo più. Sarebbe stato stupido pretenderlo.
Così, non mi muovevo nemmeno. Restavo con l’aria abbacchiata, a spostare lo sguardo tra lui e il tavolino.
Restammo davvero a lungo in silenzio. Con la musica country di sottofondo.

“Be’, io vado… a… insomma, vuoi venire… almeno la togliamo da lì…”
Mi alzai e lo dissi proprio quando non ce la facevo più. Dovevo fare qualcosa, e questa era una cosa sensata, e razionale.
Stan sollevò lo sguardo, in cui brillò un silenzioso grazie, e poi annuì gravemente.
“Sì… È giusto.”
Si tirò in piedi, deciso a smettere di soffrire straziandosi nei ricordi e a fare qualcosa. Ma quando mi girai e feci due passi fino all’inizio delle scale mobili, l’occhio mi cadde sul fondo, due piani più sotto, dove c’era soltanto un paio di barattoli per terra e una sbaffata di sangue e materia cerebrale.
“Oh cazzo. Stan! Non è più lì!”
Stan si precipitò alla balaustra, preoccupato.
“Come non è più lì?”
“Non è più lì, cazzo, guarda! Non l’hai presa bene!”
“Merda!” – e corse a prendere un paio di fucili a canne mozze. Tornò subito e me ne lanciò uno, porgendomi poi la scatola delle munizioni. Caricammo velocemente e ci riempimmo le tasche di cartucce, poi scendemmo al primo piano.
“Dobbiamo trovarla, questo centro commerciale è un puttanaio di nascondigli!”
Passammo al setaccio la zona del bar e i due negozi di abbigliamento lì a fianco. Poi passammo i cadaveri delle tre commesse e imboccammo il corridoio del primo piano. Tre dei quattro negozi avevano le serrande chiuse, quindi non poteva essere entrata lì. Il quarto era vuoto.
Quindi era ancora al primo piano. Il che era un grosso problema, perché lì c’era il supermercato.

Gli ultimi gradini della scala mobile, disattivata perché consumava troppa corrente, li facemmo a fucili spianati sui fianchi.
Il problema principale del supermercato erano gli scaffali. In pratica, era un labirinto. Gli scaffali erano ostacoli allo sguardo, dovevamo infilarci nel labirinto, per trovarla. Questo voleva dire che Stan avrebbe dovuto tenere d’occhio una parte, e io quella opposta, pronti a far fuoco se Daisy avesse dovuto farsi ‘viva’ all’improvviso. Com’era tipico di tutti quei bastardi.
Come aveva fatto il signor Drummond nel suo retrobottega.

Passammo i surgelati senza problemi. Lì ci sono i banconi-frigo che sono bassi, era più facile.
Io e Stan avevamo già pianificato il percorso migliore, tempo prima, ma quella era la prima volta che ci trovavamo a sperimentarlo. Eravamo entrambi piuttosto nervosi.
Passammo anche i cereali e la prima colazione, arrivando fino ai banconi-frigo per la carne. Erano tutti vuoti perché la merce a breve scadenza l’avevamo tutta surgelata nelle celle frigorifere sul retro. Il casino era che, mentre noi ci muovevamo là dentro, lei poteva riuscire dall’altra parte e andare dove voleva nel Mini Mart, senza che noi ci accorgessimo di niente.
E questo voleva dire che, se non la trovavamo lì, dovevamo ricontrollare tutto l’edificio da capo, e tenendo continuamente sotto controllo l’atrio del centro commerciale – in particolare l’ingresso del supermercato. E se non la trovavamo…
Poteva voler dire dare l’addio al Mini Mart. Non sarebbe più stato un posto sicuro. Poteva essersi nascosta in un posto qualunque e il giorno dopo, o un giorno qualsiasi, poteva saltarci addosso all’improvviso.
E il Mini Mart era il nostro mondo. Tutto quello che ci restava.
Lì c’era tutto quello di cui avevamo bisogno.
Daisy Arbuckle rischiava veramente di cacciarci dal paradiso.
E se lei se ne fosse semplicemente andata da dove era entrata, noi non l’avremmo mai saputo, e avremmo abbandonato il Mini Mart per nulla. A proposito,
“Da dove è entrata?!”
“Che?”
“Daisy Arbuckle. Da dove è entrata? Le porte sono tutte sane, le abbiamo chiuse coi lucchetti. Per quelle antipanico si aprono solo da dentro o con le chiavi. Da dove cazzo è entrata?”
Stan fece il perplesso.
“Ma che t’importa da dove è entrata? Voglio dire, prima occupiamoci di stanarla, poi…”

Quello che ancora non avevo pensato, ma che era lì lì per arrivare, ce lo trovammo di fronte all’improvviso.
Dietro lo scaffale dei prodotti per la pulizia della casa, all’angolo di quello per l’igiene del bagno. Wes Cradle, il benzinaio, ed il corpulento signor Watson, della compagnia di assicurazioni, già voltati verso di noi. Cradle stringeva una mazza da baseball nel pugno, decisamente minacciosa. Ci si scagliarono addosso, ruggendo, prendendoci alla sprovvista.
Aprimmo il fuoco, ma era troppo tardi. Tardi per mirare alla testa, tardi per evitare che Cradle si gettasse di peso su Stan. Watson era troppo ciccione per andare giù alla prima botta. Gli scaricai contro tutto il caricatore, preso dal panico, ma ancora stava in piedi. Stan nel frattempo era riuscito a mettere il fucile contro il collo del benzinaio, tenendogli lontana la testa, e spingendolo con tutta la forza che aveva adesso gliela sbatteva contro lo spigolo del frigo delle bevande. Riuscivo a vedere la testa di Cradle che si apriva mano a mano.
Ma il problema era l’enorme Watson, che non sembrava più intontito dai colpi al petto, dove la sua camicia pesante adesso sembrava un ricamo all’uncinetto zuppo di sangue. Grugnì e riprese a muoversi, grazie al cielo puntando me e non le gambe di Stan che gli stavano praticamente sotto.
mi dissi
L’assicuratore era sempre più vicino, e mi tremavano le mani, ma proprio quando le sue mani si stringevano sulle mie spalle – con una forza spaventosa – riuscii a infilare la canna del mio fucile sotto il suo mento e fare fuoco. Ci fu una fontana di carne e sangue verso il cielo, poi il bestione barcollò e, prima che crollasse sopra di me, riuscii a divincolarmi dalla presa e a fare un passo laterale.
Stan si rialzò in piedi e cominciò ad usare furiosamente il suo fucile come una mazza da golf contro la testa del benzinaio, fino a spappolarla.
Mentre Stan era in preda alla furia omicida, mi venne in mente da dove – per quanto improbabile – potevano essere entrati. Corsi verso l’atrio. La salma di Dan, la guardia giurata del Mini Mart, non era più dove l’avevo salutata quella mattina.
Mi si prospettava davanti lo scenario inquietante di un’intelligenza residua in quelle persone.
La mancanza di carne, di prede vive, poteva avergli aguzzato l’ingegno fino a quel punto?
Rifeci i miei passi di quella mattina all’indietro, e osservai con terrore il cadavere di Dan che teneva aperta la porta antipanico. Da guardia giurata a ferma porta.
E da lì stavano entrando altre due figure.
Divennero ferma porta anche loro. Ma nessuno dei due era Daisy.
Era dentro? Era fuori? Ma soprattutto, quanta gente c’era che si stava radunando fuori?
Contai rapidamente le cartucce e mi affacciai allo spiraglio aperto. Ne tirai giù tre, ma ce n’erano altri nel piazzale del parcheggio. Liberai con fretta febbrile la porta dagli ostacoli e la richiusi.
Corsi come un forsennato fino all’atrio e mi lanciai verso le scale mobili, gridando
“Stan! Trova Daisy!”
Al secondo piano presi il fucile di precisione che Stan aveva lasciato appoggiato alla balaustra e mi assicurai che ci fossero abbastanza cartucce. Quindi tirai fuori il mazzo di chiavi del Mini Mart di Dan e aprii la porta di ferro che dava l’accesso al tetto. La luce del sole di mezzogiorno mi prese come un cazzotto in fronte. Mi lanciai verso la scala antincendio (dalla quale non potevano salire, per via dei cancelli) e scesi fino alla prima piattaforma, da cui potevo avere una buona visuale del piazzale.
Li contai, erano una decina.
Avevo abbastanza proiettili. Cominciai con Petey, il figlio dei Leibowitz, perché era il più vicino al muro e poteva uscirmi dalla visuale. Poi con miss Mahoney, il signor Patterson, il signor Glabe – erano mesi che non mi capitava di vederlo –, l’agente O’Riordan, il capitano della squadra di football, poi il tizio che aggiustava la segnaletica a Chattabalooga, la signora Fante e infine due tizi che non conoscevo.
Controllai che non ci fossero altri movimenti, specie alla base della scala e vicino alla mia Mustang, poi rientrai di corsa.
Chiusi la porta dietro di me, a doppia mandata. M’infilai una pistola nei pantaloni, presi altre cartucce per il canne mozze, misi a tracolla il fucile di precisione e scesi cauto e molto, molto più lentamente di quanto ero salito.

“Stan!” – gridai – “Stan, l’hai trovata?”
“Sì!” – gridò in risposta – “…Era qui… nel supermercato!”. E dal suo tono di voce pensai che doveva aver sofferto davvero molto a farla fuori.

Arrivai ai cadaveri di Cradle e Watson e proseguii oltre, verso la zona dei prodotti ortofrutticoli. Non c’era.
“Stan?”
Continuai verso la zona con le videocassette, superando il reparto giardinaggio e quello delle medicine. Stan era lì, seduto contro al muro. Daisy, senza testa, stava sdraiata scomposta sul pavimento.
Stan piangeva.
Io ero vuoto, in una bolla di nebbia.
“…lei lavorava qui, ricordi? Guarda… stringe ancora in mano la chiave…”
Io ero un involucro di cartapesta.
“…capisci com’è entrata? Con la chiave!... cazzo, con la strafottuta chiave!...”
Io non capivo più niente.
Io non volevo capire.

“Ti… ti hanno m-morso?”
Stan aveva il viso rigato dalle lacrime. Si reggeva il braccio che buttava sangue, risposta evidente alla mia domanda inutile.
“Sparami, Marsh. Sparami, non farmi fare quella fine…”
L’avrò sentita cento volte quella frase, nei film.
Ma provate a sentirvela dire dal vostro migliore amico.
Provate a pensare voi che fareste.
Che provereste.
“… Stan, non ce la faccio…”
Piangevo.
Non lo vedevo quasi più, tra le lacrime. Sapevo che era peggio che morto, ma lui era Stan.
Stan, capite?
“Sparami, cazzo! Sparami! Non voglio diventare un mangiacarne rincoglionito e senza memoria!”
Ci provai. Ci provai disperatamente.
Ma non riuscivo a non pensare che forse, forse c’era il modo di salvarlo, amputargli il braccio, o magari, chissà, Stan si sarebbe trovato bene tra di loro… senza pensieri, senza problemi, solo alla ricerca di carne fresca. Sangue vivo.
“… sparami Marsh, ti prego… cazzo…”
Si sarebbe trovato bene. Bene, con la maggioranza.
“…Cristo! Sparami… finché mi ricordo di te.”
Sollevò lo sguardo verso di me. Implorante, tra le lacrime.
Si sarebbe…
Senza ricordi.

Arrivai alla Mustang con calma, e mi accesi una sigaretta.
Il sole stava tramontando, dall’altro lato del Mini Mart. Il cielo era colorato a pastello, per strisce orizzontali.
Intorno, tutto sembrava deserto.
Aprii il portabagagli e ci buttai dentro gli zaini con le provviste e le armi di riserva, con pallottole e cartucce in abbondanza. Aprii lo sportello e dentro misi tutto l’occorrente per accamparmi, sacco a pelo, zaini, fornelli a gas, torce elettriche e batterie, e tutto quello che avevo pensato potesse essermi utile.
Tornai a guardare il panorama, e la città fantasma che si stendeva di fronte a me.
Chattabalooga non aveva più niente da dirmi.

Salii su Daisy e partii sgommando.

lunedì 4 febbraio 2008

Il numero 100 - Antonia Cammareri

Questa mattina è morta mia nonna.
Antonia Cammareri, classe 1915, è morta una decina di giorni prima del suo compleanno, se non ricordo male. Ma in realtà si chiamava Carmela. Un nome all'anagrafe non vale quanto il nome che si è scelto da una vita.
Carmelina Cammareri era mia nonna, ed aveva tutte le caratteristiche nonnesche. Era bassina, rotonda, profumava di pulito. Questo prima che la 'malattia' la devastasse riducendola a un lumicino, ovviamente.
Quando dico 'malattia' in realtà sto mentendo, perché non so dirvi di cosa sia morta. Dovrei scrivere 'di degenza', perché è da quando si ruppe un'anca l'anno scorso che ha cominciato a deperire.
E stare ferma a letto, e prima in carrozzina, non le ha fatto certo bene: la perdita delle consuetudini, poi dell'interesse. E, a parte la zia che ci viveva assieme, anche le visite dei parenti erano poco frequenti. Parlo io, poi, che praticamente l'avrò vista un paio di volte.
Però, quando ancora stava bene, in preda a non so quale urgenza le spedii dalla Germania una cartolina in cui le dicevo a chiare lettere "ti voglio bene". Il che in seguito mi ha aiutato a trovare il coraggio di ripeterglielo a voce.
Era l'estate dell'interrail con gli ihggers, quella in cui espressi il desiderio di farla vivere ancora, la notte del 10 agosto, sdraiato a guardare le stelle cadenti su di un tavolino del campeggio di Heidelberg, mentre tutti intorno dormivano nelle loro tende.
Il 2000, se non ricordo male. Desiderio esaudito.

Chissà perchè, da grandi, abbiamo questo maledetto pudore nell'affermare semplicemente i nostri sentimenti.
Grazie a Dio non avrò il rimpianto di non averle mai detto il mio affetto.
Credo che a noi italiani, a me sicuramente, ci faccia paura la morte. Terrore. Davvero: a noi più che altrove.
Sarà per la presenza della chiesa, ma in generale per la nostra cultura, che ci rende scettici a prescindere sull'aldilà, e miopi sulle ineludibili necessità della vita. Per questo la morte ci risulta indigesta.
A parte il fatto che viene conosciuta perché si porta via parenti ed amici (e nella mia breve vita quanto è maledettamente lungo quest'elenco), è una questione di sentimenti. Io non li so gestire, i miei sentimenti. Non so voi.
Io la morte non riesco a digerirla. Mi resta sullo stomaco, incapace di sfogarsi mettendomi a piangere, o di essere disciolta nella consapevolezza che - come so benissimo - è solo una parte del ciclo della vita.
Il pessimo rapporto che ho con le mie emozioni mi consente solo di fare spallucce e fingere di prenderla con filosofia, ma intanto ringrazio che oggi sia lunedì di psicologo. Gesù Maria quanto devo ancora crescere...

Mi mancheranno i suoi "camìna, camìna" quando pensava gli stessi dicendo delle sciocchezze. Come quando le dicevo il mio nome, e lei pensava che stessi dicendo che ero suo marito, mio nonno, di cui porto il nome.
Ma non mi mancherà l'ossessione che aveva di pulirci la bocca appena avevamo infilato in bocca il boccone, scusate l'espressione, quando eravamo piccoli: sembrava un falco che si aggirava dietro le nostre sedie, alla cena di Natale, per far spuntare una mano improvvisa armata di tovagliolo davanti alle nostre facce, per poi premercelo contro un po' alla cieca sfregando forte per far venir via inesistenti tracce del nostro alimentarci.
Ma mi mancherà lei, con o senza quella memoria dei fatti che non ha mai avuto troppo spiccata e che verso la fine era quasi scomparsa del tutto.
Lei che ha perso il primogenito da piccolo, per una cattiva diagnosi di una malattia.
Lei che è stata - da quanto ho capito - ricoverata per un po' di tempo in un sanatorio. E se ti muore un figlio così, posso proprio capirlo...

Sono tante le cose che non so, e che forse non saprò mai, di mia nonna.
Ma so che era mia nonna, e che le volevo bene.

Così, oggi sono qui in ufficio per digerire l'evento.
Per non restare a casa da solo, a imballarmi nell'astenia e rigirarmi nel letto.
Che era morta l'ho saputo ascoltando mia madre che lasciava un messaggio in segreteria. Chiamava da fuori, perché loro stavano accudendo mio nipote.
Niccolò, la sua bisnonna l'ha conosciuta per soli sei mesi. Ma avrà delle fotografie con lei che lo tiene in braccio, per ricordarla.
Ascoltando il messaggio mentre veniva lasciato, avevo già capito. Ma non avendo capito bene la fine, ho pensato potesse essere "è morta Anna". Ma era chiaro, e quando l'ho riascoltato ho avuto solo un senso di conferma.
Quando mi dissero che era morto nonno, la presi molto, molto peggio.
Ma ero anche più giovane, e legato al nonno di cui porto il nome, per quanto fosse burbero e autoritario.

I funerali ci saranno domani mattina alle 10, non so ancora dove. E se voglio andare a guardarla prima che chiudano la bara, dovrò farlo oggi.
E' un ultimo saluto che non so se riuscirò a fare.

Mia nonna è morta alla veneranda età di 92 anni, se ho fatto bene i conti, ed il numero 100 non lo vedrà mai. Come non vedrà la mia tesi, se mai la farò, che a lei ed al mio relatore era stata dedicata.
Ma questo post col lutto al braccio è anche il centesimo del mio blog, e come quando ti muore un parente prossimo, come in effetti è, è tempo di bilanci.

Era il gennaio dell'anno scorso quando, un po' incautamente (scherzo), ho deciso di aprire questo blog.
Un blog che giudico un po' sotto la media, in fondo straparlo degli stracazzacci miei ed ho un pugno d'inguaribili lettori, né si può dire che gli argomenti di cui vi parlo siano poi così interessanti. E' un po' uno spaccato della mia vita, della mia esistenza, e delle molteplici maschere che indosso.
Ma proprio per questo un primo, importante risultato l'ho raggiunto: questo blog è ancora vivo, ed io ancora parlo. (Chi ha detto 'purtroppo'?! ^__^)

Poi, bisognerebbe parlare dei contenuti, del perché io abbia iniziato questa 'avventura'.
E qui, dovrei rammentare a tutti che questo blog è nato un po' per sfogo, un po' per fare qualcosa di concreto, avere delle scadenze fisse, e soprattutto come promemoria.
Promemoria per ricordarmi di fare, di dare vita a tutti quei sogni che partorisco dalla mia mente irrequieta ed inzio a fare, senza concluderne poi molti. Per questo, sotto al titolo, campeggia la frase che mi dedicò una volta la mia amica Sara.
E forse, proprio grazie a questo blog, finalmente i miei risultati sono riuscito a portarli a casa.

Il 2007 è stato un anno fantastico, prolifico come nessuno degli anni prima.
L'intervista ai cittadini sulla P.A., la mia comparsata nel corto di Sportiello, il racconto finalista a RiLL, il promo della MetRo, Arkipélagon (per quanto abortito), i due corti co-sceneggiati da me realizzati da Giulia a Firenze... solo per dirne alcuni.
E le pagine e pagine scritte, che ancora non hanno una soluzione, ma sono lì, belle dense.
Avrei voluto che mia nonna sapesse di tutto questo, o meglio, lo vorrei adesso.
Così, per presa conoscenza.
Come forse dovrebbero finalmente saperlo i miei, che faccio teatro da tre anni, che sono andato in scena tre volte con 'La Scoperta De L'America' e che ho scritto persino un monologo. E che sto lavorando su un copione di quattro atti.
Ma forse è solo ansia di riconoscimento, figlia della paura della morte. Chissà, almeno in questo forse fa bene.
Dunque anche sotto questo profilo è stato un successo, e magari anche l'aver diradato così tanto i miei post non è del tutto estraneo alla mia mancanza d'entusiasmo, che mi sento addosso come un veleno.
Perdere la voglia di raccontarsi, in fondo, non ne è che un sintomo.

Il 20 gennaio 2007 scrivevo che "Terra, Pioggia, Fuoco e Vento" è un marchio. Il marchio di un progetto da venire.
E non a caso il 2007 si è chiuso con un primo vero passo in questa direzione, la scelta di un primo socio, Valerio, di cui non vi ho scritto per mancanza di tempo. E forse non è un caso neanche questo.
Parlavo di "Una cooperativa di creativi". Progetti ambiziosi, ma che han cominciato a partire dal piccolo, dal mondo dei giochi da tavola. E son partiti confronti a proposito, poi persi e sospesi causa lavoro mio e di Jack Sbòrrow, e dell'Erasmus ispanico dello Spinacione.
E anche se nel 2008 questa macchina da guerra sembra essersi impantanata, io so che andrà avanti, coi suoi ritmi. Perché non si deve fermare.

Quello che forse avrei dovuto fare, e non ho fatto, sarebbe stato richiedere e ottenere maggiori commenti. Se da voi ne vengon pochi, avrei dovuto allargare il mio pubblico. Non centellinarlo, come ho fatto.
Ma la natura di sfogo, di blog quasi diario in cui emerge a tratti un me diverso da quello solito, magari più cinico, più innamorato della battuta, non so, mi ha sempre spinto ad essere restio.

Prendete Chiara, ad esempio.
Tempo fa, in preda all'ispirazione del momento, mentre andavo un martedì a laboratorio di teatro mi son fermato a prenderla.
Lei usciva da lavoro, zona piazza del Popolo, io avevo dimenticato il cellulare. L'orario di lavoro era da poco finito, e dirigersi verso il negozio poteva significare non incontrarla. L'unica cosa che sapevo era che prendeva la metro. L'unica era mettermi ad aspettare e sperare d'incontrarla. Mi sono anche dato un tempo massimo, ma finita la sigaretta - dopo essere corso appresso a un paio di ragazze che non avevo visto bene in faccia - sono andato a gettarla proprio nella piazza, e poi d'istinto ho tirato avanti. E me la sono trovata lì, con in mano le buste della spesa.
E' venuta, ha partecipato al laboratorio, ed è stata una bellissima serata.
Quando l'ho riportata a casa, tra una chiacchiera e l'altra, m'ha anche riempito di giocosi cazzotti - una cosa che, lei non sa, ho adorato. Perché c'era quella ingenua, spontanea complicità che rende speciali le persone.
Mi picchiava perché le avevo detto l'indirizzo del blog, e poi l'avevo confusa, facendoglielo dimenticare.
Perché sono mesi che lei setaccia la rete, con tattiche da hacker in erba, per riuscire a trovarlo. E a me piace da matti questo gioco. E non sa che, per trovarlo, basterebbe digitare "vania teatro ygramul chiara" per trovarmi in seconda pagina o "vania teatro ygramul pascarella" (lei c'era, a vedermi) per trovarmi alla prima! ^__^
O magari l'ha già trovato ma non mi dice niente...
E dire che praticamente le ho detto come fare quando siamo usciti insieme per festeggiare il suo autosiluramento, l'ultimo giorno di lavoro per gli schiavisti marca Timberland.
Siamo andati al belvedere di Monte Mario, all'Osservatorio. E poi ho provato a farla entrare scavalcando un cancello in una vecchia scuola elementare abbandonata, sempre lì in zona, ma c'era davvero troppa gente (compresi due tipi in un jeeppone a fianco a noi che stavano sicuramente facendo roba).
Perché non gliel'ho dato subito, l'indirizzo? (malpensanti!)
Ricordate quel post sulla festa di compleanno di Arianna, e quanti commenti erano partiti sul mio modo un po' velenoso di descrivere due tra le invitate? Ecco, è tutto lì.
Non ho dato l'indirizzo nemmeno ad Elisa, la nipote di Luciano da me compianto su queste pagine, nonostante sia una mia carissima amica. Perché non volevo che leggessero cose che... al di là del poter essere fraintese, potessero turbarle, non so, parti di storie non conosciute. Opinioni di passaggio che possono essere prese come fatti.
O magari che potessero ferirmi, smentendo cose che io qui scrivo e che penso in buona fede vere. O che mi piace pensare così.
Io qui, per quanto anonimo scrittore (anonimità fittizia per un buon 90% dei miei lettori) non sono un alterego al di là del giudizio. Sono io, carne ed ossa, e pensieri sbagliati.
Rompere un'amicizia per me sarebbe terribile, come brutta sarebbe un'incomprensione. Con molti di voi posso spiegarmi a parole: col Deso, col Digia spesso abbiamo anche discusso del blog. Ma non posso farlo con tutti.

Eppure questo sono io, e dovrei imparare ad avere il coraggio di farmi conoscere.
Anche così.

Questo non vuol dire che darò quest'indirizzo a tutti, ma dovrei applicarmi, come buon proposito, a diffondere il mio blog di più.
Voi, se trovate qualcuno cui interessa (come ha fatto il Deso a studio), fate altrettanto.
Sapere che qualcuno ti legge, quando scrivi, è importante.
Non sono mai stato uno che scrive per sé punto e basta.

E infatti la regolarità della vita quotidiana, il tran-tran dell'ufficio, mi ha aiutato a tenerlo in piedi. Non è un caso che vi scriva da qui. A casa, col computer connesso a internet che è in camera di mio padre, ed i genitori sempre tra i piedi, è sicuramente più difficile.
Ormai è ufficiale, da mercoledì firmo il contratto e mi trasferiscono d'ufficio: passo in Videoteca.
Curioso, per uno che a dicembre ha recitato la parte del commesso di videoteca che viene massacrato di mazzate.
Nuovi colleghi, addio ai vecchi che incontrerò solo al bar o nei corridoi.
Nuove cose da fare, nuove competenze, tristezze aggiunte. Il cambiamento a me mi fa star male.
E poi, anche tra gli studenti quelli che mi sentivo più vicini, entrati con me nel 2005, hanno finito e si sono diplomati. Restano altri, ma i nuovi mi sembrano una massa ostile di sconosciuti, potenzialmente privi di interesse.

L'assurdità delle cose che mi capitano mi ha fornito argomenti, e sono lieto di avervi divertito per quel che ho potuto. Conto di farlo ancora nel 2008, visto che è impossibile non me ne capitino di diverse!
Ad esempio, rimettendo a posto un quinto di scaffale di un armadietto, a casa, ho ritrovato un vecchio biglietto che mi avevano lasciato dal portiere quattro compagne di classe che mi erano venute a trovare.
Più o meno recitava così:
"Enrico, ti siamo venute a trovare affamate di sesso, con la promessa delle foto del superdotato, e tu non ci sei!!! Angela, Minni, Tania e Giorgia"

Ovviamente, si spiega col fatto che a scuola parlavo di una foto su computer di uno che ce l'aveva lungo quanto il torso (ce l'ho ancora quella foto, finta ovviamente), e non credo che fosse davvero del tutto onesto quanto scrivevano in quel foglio.
Però mi piace pensare che mi sto sbagliando. ^__-
Adesso, quanta gente tra i suoi ricordi può vantare un biglietto del genere?
^__^

Eccovi quindi svelato l'arcano del post da sei pagine precedente: essendo questo il post numero 100, non potevo mischiarli. Questo qui, doveva avere lo spazio suo.
Vi lascio, convinto che continuerete a leggermi, ormai siete assuefatti.


GrimFang