L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

venerdì 19 dicembre 2008

Film sbagliato nel momento pessimo

Ho visto Changeling.
Bello.
In alcuni tratti un po' lento, con un finale che fatica ad arrivare, per cui ogni volta ti chiedi "ma non poteva finire qua?".
No, sono ingiusto... Racconta una vicenda vera, e finché la realtà non finisce è giusto che la storia continui. Purtroppo, perde gran parte della forza. Quando sullo schermo per voi si risolve il nodo centrale della faccenda, c'è ancora un quarto d'ora di film.
Brava la Jolie, che fa capire che si sente mamma sul serio, e non ha adottato o avuto i suoi bambini così 'tanto per', come buona parte delle stelle di Hollywood. In alcuni punti capisci che quella donna lì sta recitando chiedendosi "e se accadesse a mio figlio?"... Certo, magari le trema un po' troppo spesso il labbro inferiore, ottenendo l'effetto leprotto spaurito tanto caro al buon vecchio Walt, però...
John Malkovich è bravo come sempre, anche se da "Le relazioni pericolose" in poi gli è rimasta appiccicata addosso un po' quest'aria da stronzo pure se fa il buono come il pane.
Gli altri... bravissimi Michael Kelly e il ragazzotto Eddie Alderson: loro due tengono banco quando sono in scena, e del secondo è la scena più bella e inquietante del film, quando osserva un ragazzino ciccione che batte ritmicamente un righello di legno sulla gamba. (eh eh eh...)
Anche Jason Butler Harner è bravo, e sa rendere l'inquietudine del suo personaggio. Anche se ho il vago sospetto che il buon vecchio Clint l'abbia cazziato per farlo restare dentro le righe... ostenta una sorta di gigioneria repressa.
Quindi, in fondo, un film da vedere.

Magari, non dieci minuti dopo aver attaccato al telefono con Chiara.
Magari, non proprio nel periodo in cui dopo due mesi stiamo ancora cercando il Deso.
Magari (fosse stato così) in un momento di relax, senza pensieri, in cui è difficile che ti s'incupisca l'animo.

Vi avviso che in questo paragrafo sputtano la trama del film.
Il film parla di una madre cui scompare il bambino. E del mazzo che si fa per cercarlo. E per trovarlo alza un polverone tale che, a un certo punto, la sbattono in manicomio per togliersela dalle scatole, dicendo ch'è pazza.

L'analogia con la scomparsa del Deso ovviamente non c'è, o regge fino a un certo punto.
Lì erano gli anni Trenta, in cui una donna fa quello che può, cioè niente tranne non darsi per vinta. Però ammetterete che può comunque andare a scavare, in certe situazioni che possono generare certi paralleli, in emozioni scomode.
Ma io ero preoccupato per altro.
I film che parlano di follia, di manicomi, di disagio mentale, mi fanno salire su un certo rigurgito di ansia e paranoia che con gli anni sono riuscito a sedare, abbastanza bene.
Sono il retaggio della non-storia (per fortuna?) con Chiara, di cui vi ho accennato, ma forse mai veramente parlato.
Se lo avessi fatto, a beneficio di coloro che si sono sintonizzati su questi canali da troppo poco tempo per saperlo, proverommi a fare un breve riassunto.

Dopo essermi lasciato con Fabiola, nel maggio 2000, ho avuto un periodo più o meno lungo di mezzi tentativi, mezze tresche, mezzi flirt dal, direi, misero successo.
Con Stefania ci siamo saltati addosso in un letto in cui dormivano altre due persone (amici), ed è suonata la sveglia dopo nemmeno tre minuti. In un nanosecondo eravamo lì a fare i vaghi mentre tutti si alzavano. Dopo, il fatto che io ci tenessi a non avere una storia e a sentirmi più libero ha fatto sì che si stabilisse una distanza siderale.
Con Tiziana, è stata forse l'unica vera volta in cui io abbia rimorchiato una donna facendole perdere la testa in cinque minuti. Vista in fiera, abbordata avendo cura di sedermi accanto a lei alla cena, e - UNICO contatto della serata - le ho rivolto la parola UNA VOLTA SOLA, per fare un commento sul suo modo di essere.
Lei mi ha risposto stizzita, del tipo "ma questo che cazzo pretende di sapere di me?!" ed io ho colto la palla al balzo per descriverle in cinque minuti precisamente com'era fatta, neanche stessi leggendo un libro ad alta voce, comprese cose che lei stessa ignorava di sapere. Dopodiché NON ME LA SONO PIU' FILATA.
...ha fatto carte false, per rivedermi.
Poi, una sera, siamo finiti a letto insieme, ma mentre si stava per, lei mi è sembrata un po' frenata, e quando gliel'ho chiesto lei mi ha risposto, con tono d'accusa "lo vuoi capire che sono vergine?!?".
E alè. La mia necessità primaria è stata quella del "non farla sentire respinta", ma, avendo anche a lei chiarito che non volevo una storia, mi è sembrato orribile approfittarne comunque.
Con Anna è stato diverso, perché c'era tutto lo spazio e l'intenzione non per una storia, ma per una tresca, almeno. Ma anche con lei, nonostante tutto sembrasse cospirare a nostro favore - eventi, situazioni... - al momento del 'concludere', che brutto termine ma non mi viene in mente un altro giro di parole, il mio spirito cavalleresco ha notato la solita maledetta distanza, e ne ha chiesto spiegazione. Alla seconda richiesta di spiegazioni l'ho preso per un no. E da lì tutto è andato a perdersi.
Infine, Kiara con la K per distinguerla dalle altre, conosciuta all'ufficio di collocamento, frequentata, invitata a casa un giorno miracoloso in cui era vuota, mi salta addosso e 'si conclude' (salvo pausa arrivo amico - scusa Vale', non l'hai mai saputo, ma m'hai beccato con la mano nelle sue mutande), finalmente. Ma...
Ma Kiara mi usa, di brutto. Mi svuota. Non mi dà nulla e prende tutto. Me ne accorgo e mi sento male, sto di schifo, e lei che fa? Se ne va nell'altra stanza a guardare la televisione.
Cristo...
Da allora la considero l'esperienza più negativa della mia vita, e non la auguro nemmeno al mio peggior nemico.

Questa era la premessa.
Ora parliamo di Chiara.
Io e lei eravamo compagni all'università. Frequentavamo l'auletta occupata, canne, serate nei centri sociali... lei più di me, comunque. Non avevamo gli stessi giri di amici, a parte negli spazi universitari, ma qualche rara volta c'è anche capitato di uscire insieme.
Ma col senno di poi, io ho ricordato che era in auletta quando io, contento di musica e testo e desideroso di far ascoltare a qualcuno la canzone che m'ero inventato, ho scelto lei.
"Dimmi che m'ami / amore come sei piccola stringimi / le mani.
Dimmi ch'è vero / amore come sei dolce sembri di / zucchero."
Ed è lì che mi piace pensare d'essermi davvero innamorato di lei.
Abbiamo cominciato a frequentarci di più quando lei ha cominciato a giocare di ruolo nel mio gruppo. Ed è stato lì, dopo almeno due, tre anni che giocavamo insieme, che ho cominciato a notare quanto era carina. E quanto si vestisse bene, tutta acchittata, per venire a passare, in fondo, una serata in casa con gli amici.
Ed ho sperato che lo facesse per me. L'ho desiderato con tutta l'anima.
Ho chiesto conferme a Chicca - altra mia giocatrice - per non prendere una colossale cantonata, ma anche lei mi ha confortato in una simile impressione.
Ma era troppo tardi.

Nessuno lo sapeva, ma Chiara era già in esaurimento nervoso.
Una sera, durante una pausa della partita, Chiara va al bagno; Chicca viene da me allarmata e mi dice che sembra che pianga. Vado, aspetto fuori della porta, preoccupato. Quando esce e mi vede indurisce il viso e mi chiede
"Tu che ci fai qui?"
Provo a dirle che ero preoccupato per lei, ma l'intuizione di quanto stia male, e come sia profondo il suo malessere m'arriva come un cazzotto allo stomaco.
Vomito.
Non ho mangiato niente, ma vomito.
Lei si preoccupa, si allarma: l'ho spiazzata. Era convinta che nessuno potesse capire come stava, e invece c'è. Prova a starmi vicina, forse sensi di colpa, ma mi arriva di nuovo l'esatta cognizione del suo soffrire.
Vomito una seconda volta.
Poi mi sdraiano sul letto, stanco e sudato, tremante.
Sento che si preoccupa, che si sente in colpa, che ci tiene a non lasciarmi ora che... boh, ora che c'è qualcuno che l'ha capita.
Ci tiene.
Mi faccio riportare a casa da lei che non ha la patente, invece che da Andrea che ce l'ha.

Così è cominciata.
Ed è proseguita con il mio stupido istinto di crocerossino, il "io ti salverò" ch'è una delle cose più false che abbiano mai coniato, come il concetto di normalità...
"Tu ti salverai" sarebbe corretto.
Ho cercato di starle vicino, anche se starle vicino destrutturava ogni mia sicurezza e metteva in crisi il mio io, generando in me la più acuta paura di tutto ciò che genera la perdita delle facoltà mentali. Le sono stato vicino per confortarla, rassicurarla e non lasciarla sola.
Sono stato l'ultimo ad essere accusato da lei di qualcosa, distruggendo relazioni a manetta come faceva, e l'unico col quale la rottura non sia stata che parziale, mirata: "io e te abbiamo chiuso! ...per quanto riguarda questo.". ^_^
Le sono stato vicino senza dirle che l'amavo, sempre di più, perché era un uccellino ferito che aveva bisogno di me: sull'amore vero si metteva anche l'amore un po' meno sano, quello che ti fa sentire indispensabile per qualcuno quando non dovresti mai esserlo...
Le sono stato vicino fino a quando anche il mio sistema nervoso non ha cominciato a patirne, fino a quando la spirale in discesa non mi ha fatto capire che non aveva senso precipitare in due.
Le sono stato vicino fino a quando non mi sono dato alla fuga; ma anche quando mi sono dato a gambe levate non l'ho abbandonata, e continuavo a mandarle messaggi, a rassicurarla, a spiegarle la situazione. A dirle che anche se scappavo era per istinto di sopravvivenza, ma non smettevo di volerle bene. E credo anche che l'abbia capito.
Alla fine, grazie al Deso con cui ci siamo fatti concorrenza spietata per Chiara (ma lui non sapeva che stava male - vinse lui e scappò terrorizzato nel giro di mezz'ora), riuscii anche a dirle che ero inamorato. Mi respinse, forse perché non voleva privarsi di me.
Come picco negativo ricordo la telefonata in cui, in un momento in cui mi stavo divertendo, una giornata di sole, mi chiese aiuto perché vedeva il sangue sgorgare dal pavimento... ed io ero comunque troppo distante per non fare altro che soffrire e basta, senza poter essere di conforto altrimenti.
Poi...
Poi tanto fa la distanza, il non sentirsi, e la terapia.
Vado dallo psicologo da allora, per smettere di avere paura a buffo, così, la notte. Smettere di vedere nera l'esistenza, di non avere più riferimenti, di sentire che a tratti il mondo cede... di cercare la pace con sofferenza.
Smettere di dover andare a dormire a letto con papà, a 27 anni, per riuscire a prender sonno e smettere di tremare. O di vomitare.

Talmente tanto fa la distanza, fisica, temporale, o la terapia, che raccontandole - un giorno a casa sua - i benefici che ne traevo, la spinsi ad andare dallo psichiatra.
Che le diagnosticò la schizofrenia, e le prescrisse i farmaci.
Per un po' li ha presi, ma non abbandonando lo stile di vita canne e centri sociali che aveva, li mollò in seguito; pian piano come doveva, ma troppo presto.
Io non stavo meglio quando la vedevo, e pian piano sono sparito.

La vita continua a metterci davanti, ed il tempo che passa rende più gradevole anche l'abisso in cui hai guardato.
L'amore non fu consumato, e ad oggi potrei dire che niente è riuscito a prenderne il posto, finora: dopo di lei c'è stato il nulla.
A guardarla da qui, potrei descriverla come la scena che si vede quando è passato lo tsunami, o il tornado. Attorno a me, il cumulo di macerie delle mie certezze, delle mie presunzioni. I resti sparsi della mia spensieratezza, del mio vivere senza problemi, dei miei ideali. Arido, vuoto; da ricostruire.
Per stare con lei sarei stato disposto a condividerla con un esercito di uomini. Disposto a ingoiare rospi mai pensati prima, e devo dire che per questo m'ha insegnato molto sull'amore. Sull'imbecillità di concetti come tradimento e gelosia, sulla potenza devastante di quest'emozione.

Questa, a grandi ed imprecise linee, la nostra non-storia.

Forse ora riuscite a capire perché, avendola reincontrata per caso all'università, da una parte mi facessi qualche problema e dall'altra mi stupissi dell'assenza di reazioni da parte mia.
Beh, le reazioni sono arrivate quando ho visto il suo nome sul display della chiamata. In un nanosecondo mi sono piombate tutte addosso: le ansie, le paure che avevo stupidamente pensato di aver risolto. L'oscura onda dell'ignoto.
Le domande più insulse si sono affacciate alla mia mente: perché, cosa vorrà, in quale stato mi chiama, sta per ripiombare su di me un periodo altrettanto oscuro della mia vita?
Quando guardi nell'abisso l'abisso guarda in te.
E pensare che grazie a quell'assenza di reazioni m'ero stupidamente convinto d'averla superata!
Mi ha chiesto di uscire sabato, per parlare, bere un bicchiere di vino.
Ma io ero l'animale in paranoia, il cerbiatto che parla col lupo.
Ho tergiversato, ma non le ho detto un no pieno. Avevo bisogno di tempo.

E andavo a vedere Changeling.

La nausea mi avrebbe fatto rimanere in casa, protetto, al caldo.
Sbagliato.
La terapia almeno in qualcosa dà i suoi frutti, e mi sono forzato a uscire. Anche se avevo voglia di vomitare.
C'era il vantaggio che avrei incontrato Erika, che veniva al cinema con me, e che avrei trovato un supporto valido per appoggiarmi. C'era la necessità di non rientrare nel guscio, di combattere, di lasciarmi alle spalle le ansie e le preoccupazioni: non è possibile che sia una semplice telefonata a decidere della tua vita, di quello che fai o non fai.
Ho combattuto, sono arrivato che Erika ancora non c'era, faceva un freddo becco.
Stavo per cedere, quando ho chiamato Erika per avvisarla che forse non restavo; ma lei era dietro l'angolo, ed il riscaldamento della sua macchina, quando son salito, ha giocato a mio favore.
Erika mi è stata di conforto non tanto per preziosi consigli quanto per calore umano, e alla fine mi sono anche accorto che un po' del mio malessere era aumentato psicologicamente: caricato per poter affermare qualcosa come "guardami come sto male, mi ha chiamato Chiara"...
Compatiscimi. Rendimi il centro dell'attenzione.
Molto, molto teatrale.
Molto, molto stupido.
Anche perché il disagio è reale. Dovessi vomitare ogni volta che voglio attirar l'attenzione...
Quindi, piano piano, mi sono calmato, ed Erika mi ha convinto ad entrare. Ho provato a vedere se c'era altro al posto di Changeling, ma erano tutte cagate pazzesche. In più, Erika aveva un biglietto gratis anche per me...

E' stata una sofferenza.
Durissima.
Spesse volte, nelle scene ambientate nel manicomio, dovevo guardare i copri lampada della sala e mettermi a contare i buchini che c'erano sopra per non consentire al mio cervello di pensare.
Ogni tanto, avevo il bisogno fisico di fare un commento anche stupido a bassa voce ad Erika, per confermare a me stesso che mi trovavo in una sala cinematografica con un'amica, e non da solo con me.
Alla fine del primo tempo, un singulto di terrore si accompagnava alla certezza che di film ce n'era altrettanto. Presa a male, disturbo, di nuovo voglia di scappare a casa. Erika mi convince con la scusa più imbecille di questo mondo:
"Ma no, non ne manca tanto, il cartello di fine primo tempo ormai lo mettono dove vogliono..."
Ma basta a convincermi, perchém si spengono subito le luci.
E giù ancora a veder scene atroci, a cercare di valutare la scelta dell'inquadratura o la competenza del fonico per non sentirsi coinvolto.
Una via crucis.

Una via crucis che ha dato i suoi risultati.
All'uscita, sigaretta e due chiacchiere in macchina su cose normali: il lavoro, i ragazzi (suoi)... Il mondo non è un assoluto: nel bene e nel male. C'è spazio per la nostra imperfezione.
E forse mi ha consentito oggi di chiamarla con uno spirito quasi del tutto sereno.
"Ciao! Per stasera mi sarei liberato, ma sono un po' a pezzi..."
"Eh, guarda anch'io, sono stata in giro tutto il pomeriggio a fare regali..."
Rido di gusto, felice.
"Esattamente lo stesso!!! Che dici, ci vediamo domani?"
Mi chiamerà tra una decina di ore...


GrimFang

Nessun commento: