L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

venerdì 6 luglio 2007

Sul mestiere dell'attore

Lo so che vi avevo promesso i post su Granada, ma questo blog, in fondo, oltre che racconti di vita e di esperienze più o meno stravaganti, è un promemoria di ciò che faccio e di ciò che sono, per rifletterci su anche insieme e magari fissare dei punti importanti, che mi diano un po' di spinta in avanti.

Capita, quindi, di voler fare un piccolo punto della situazione su quella che è una branca della creatività che, assieme ad altre, percorro.
Durante il viaggio in macchina verso Viterbo, Sara (Ludyka), mi ha detto una cosa importante.
Mi ha detto
"Tu non ti sai dare un valore."

In effetti, è vero.
Ed è stato questo pensiero ad avermi molto aiutato a bypassare il panico da esibizione.
Ricordate di quando parlavo del confrontarmi col mito di me stesso?
Bene, è la stessa questione.
Il fatto è che, nel sentire quest'affermazione - e superato il primo istinto a contestarla, come sempre accade quando ti muovono una critica o un'obiezione - io sono riuscito immediatamente a ricordarmi di quando e come io, invece, mi sia dato un valore; e di come, per necessaria conseguenza, io poi non me lo sia dato realmente, sul piano pratico.

Vedete, con molta immodestia, darmi un valore è stato per me praticamente sempre (o quantomeno negli ultimi anni) un modo per spronarmi tramite l'autoesaltazione.
Prima di passare per un invasato, mi spiego: dovendo affrontare, ad esempio, la stesura di un romanzo, era fondamentalmente utile (e forse lo è tuttora, almeno in parte) fomentarmi sostenendo di essere "il più grande scrittore mai esistito" e di avere "grandi cose da raccontare", o altre simili amenità.
Ovviamente - non vado in giro con la mano nel panciotto, o almeno, non ancora - il mio spirito razionale e pratico non può avallare una simile concezione, che rimane quindi quel che è, un'autoesaltazione momentanea e finalizzata.
Sì, Digia, lo so che ogni tanto anche in altri casi esce fuori, non c'è bisogno di sottolinearlo... ok, ok, "ora che hai riaperto la ferita versaci pure il succo di limone!" ^__^
In pratica, essendo la percezione della mia autostima piuttosto bassa, non ho trovato niente di meglio che farla crescere sparandola in alto il più possibile nelle occasioni in cui necessitava (il che comprende lo scoattarmela per tutte le cose che ho cominciato e non ho ancora fatto): ma essendo comunque in grado di autopercepirmi e comprendere che trattasi di fesseria, nella cognizione della distanza che intercorre tra concetto e autostima c'è sempre stato tutto lo spazio che poteva servire all'insicurezza e al panico.
Ed è anche per questo che quindi spesso non si batte chiodo. Ma questo è un altro discorso...

Tornando a noi, per riassumere, se da un lato mi dico "sei il massimo" dall'altro do per assodato il "sei il minimo", e chiaramente le due cose si vanno a mal conciliare.
Quindi, la mia risposta a Sara è stata
"Guarda che invece me lo do spesso, ma è un valore che io stesso so non essere reale e quindi magari poi non lo dico per non peccare di presunzione."

Ma Sara ha trovato da precisare anche su questo: se una persona vale dieci e dice di valere dieci, questo è realismo, non è presunzione.
Adesso, so benissimo di non valere dieci, ma so altrettanto bene - realisticamente parlando - di valere almeno sette. E se qualcuno mi chiamasse un giorno a darmi pubblicamente un valore, di certo non sparerei il tredici di quando mi davo un'autovalutazione intima e personale per sentirmi in grado di "spaccare il culo ai passeri", per dirla con un'espressione a me cara e un po' volgare. (trovo che dia una singolare idea di precisione ed efficacia, visto che è sottinteso che i passeracei siano in volo) ^__^
Direi invece proprio quel sette.
E allora perché non dirlo?
A Ludika, ogni volta che dovevo andare in scena mi bastava pensare di essere un sette, e dimostrare in scena anche un sei e mezzo andava bene - l'importante non era svaccarsi su un quattro. Ma ormai, dopo tanti anni di teatro, avendo la coscienza di essere un discreto, un buon attore semiprofessionista, ero anche convinto di essere praticamente al riparo dalle figuracce da quattro.
Di lì, la tranquillità. Anche la capacità di giocarci un po' sopra, quando mi sentivo sicuro.
Al Festival di San Cleto, per tornare al parallelo di prima, io andavo in scena convinto di dover far vedere a tutti, ancora una volta, di essere il tredici che non ero. Che non sono.
Convinto che ormai l'aspettativa su di me fosse quella del numero 13.
Sbagliato: il fatto che ho vinto dimostra che magari quella sera sono andato da otto, cercando il tredici! Perché - ed è questo il peso della misura - da quel "palco" come da tutti gli altri "palchi" prima di Ludika in cui ho sentito il peso di una simile aspettativa (del pubblico o personale), io sono andato via col batticuore e con la sensazione di aver fatto pena!
Eggrazziearcazzo, se pensavo di dover "far tredici" (appunto!) anche se avessi fatto dodici sarei, diciamo così, ito 'n puzza.

Quindi, una prima importante lezione - da continuare a mettere in pratica, in TUTTI i campi - è stata questa: smettere di non valutarmi.
Se pensate che qualcosa di questo ragionamento si applichi anche a voi, beh, cominciate a metterlo in pratica!


Altre cose che quest'edizione di Ludika mi ha insegnato, sul mestiere dell'attore, sono nate dal ritorno associato alla notizia del ricovero di mio fratello.
Sul fare teatro come ricerca della propria identità, e non come sua perdita, vi ho già detto parlando del bicchiere mezzo pieno nel post "TySOn" di poco tempo fa, sul finale. Ogni volta che si va in scena si può cercare - a posteriori - tra le emozioni e le energie, i pensieri, ma anche i movimenti corporei, i gesti, la fisicità, quello che - in scena come nella vita - ci ha fatto sentire a casa. Il resto, credo si possa dividere tra lo straniero e il viaggio.
Il primo, è ciò che non ci appartiene, che ci è strano ed estraneo, con cui non ci si trova a proprio agio; quello che si è contenti, sulle prime, di lasciare. Usando questo termine rischio di sembrare xenofobo, ma vi sono comunque due aspetti: da una parte nulla vieta che, dopo l'iniziale repulsione si provi per questo lato un rimpianto, o una voglia di conoscere ed approfondire; dall'altra, la radice delle parole estraneo e straniero sono le medesime, ed è in questa accezione di 'non proprietà' che il termine va inteso.
Il secondo, il viaggio, è ciò che ci è estraneo alla stessa maniera, ma non ci mette a disagio: ce lo godiamo e lo guardiamo passare come un bel paesaggio dal finestrino di un treno. Non ci turba, quindi non ci spinge nemmeno ad odiarlo, ad amarlo, ad andarlo a investigare. Sta lì, e dopo un po' lo si dimentica, come una bella sensazione che si è provata nel... nell'andare a visitarlo.
Quindi, quasi paradossalmente, è lo straniero dei nostri personaggi che ci viene a bussare alla porta di casa, che ci disturba, che ci intima di conoscerlo. Che viene vissuto come pericolo ma ci attiva. Il viaggio, è solo un vestito labile che non ci mette mai in discussione: batte corde troppo vicine al nostro bicchiere mezzo pieno.
Questo ovviamente non toglie che ci siano aspetti di straniero nel viaggio e viceversa, o che perlomeno ci possano essere.
Se nel fare il principe Amleto mi vivo il 'parricidio' dello zio come una cosa che a me non potrebbe mai succedere, metterò in scena un bel viaggio; se anche solo mi sfiora il dubbio che possa pure capitare, in questi giorni di uxoricidi e vicini di casa presi ad accettate, ecco che salta fuori lo straniero.
Il corpo in scena sono sempre io - parte di me resterà in Amleto come sua e mia casa - ma nella voce, nell'intenzione, nei gesti, sarà a tratti viaggio, a tratti casa, a tratti straniero.
...è chiaro?
Fatemi sapere se non avete capito, eh? ^__^

Ancora, la frase di Artaud sulla parete - Artaud che venne ricoverato in manicomio (quelli dove sì che ti facevano l'elettroshock per niente!) - scritta di spray rosso come fosse sangue, mi è persino sembrata scritta nel modo giusto e ben poco transitoria. Sebbene debbano rifare le pareti, prima o poi, quella sembra destinata a restare, anche sotto l'intonaco nuovo.
Nello spettacolo di quest'anno c'è un momento in cui si fa 'il Bobo'. Si tratta di perdere in certo qual modo il controllo e divenire solo corpo in agitazione; corpo che comunica, anche se non verbalmente. Anzi, negando la verbalizzazione visto che si emette praticamente solo un qualcosa tipo "blblblblblblblblb". In pratica, si spinge il corpo verso l'eccesso di destabilizzazione (non so dirlo meglio, a quest'ora) e - a detta di Vania - si arriva a comunicare con l'energia pura.
Il tema di questo Bobo, nel nostro spettacolo (non so se si tratti di qualcosa in generale) è cercare di trasmettere al pubblico il perché facciamo teatro.
Ciascuno di noi ha scelto uno dei motivi; io ho scelto quello del 'contagiare'.
Contagiare le persone con la passione, spargere attorno a me come la peste il piacere che provo e la bellezza del fare teatro. Del farlo così. Lunedì pomeriggio mi sono accorto che questo non era vero. No, meglio, era vero, ma più superficiale.
Sotto c'era - e c'è - qualcosa di più grande, profondo.
Come la gran parte delle azioni che compiamo sono azioni egoistiche ed edonistiche, così c'è sicuramente un aspetto simile anche nel mio far teatro. Però, sotto, c'è anche qualcosa di diverso e... fondante. C'è l'affermazione, più della ricerca, di sé. Non solo per via delle gratificazioni che si ricevono (gli applausi, ma anche prima i complimenti, i "sei bravo" e anche i "ti sottovaluti"), ma anche per quel senso di 'presenza' che vi dicevo. E per la costanza nel fare qualcosa: che sia andare dallo psicologo o giocare a calcetto le attività svolte regolarmente aiutano il formarsi di bioritmi sani! ^_-
Ma nella mia presenza scenica c'è appunto qualcos'altro, qualcosa di più sostanziale. Anche se si tratta di una sensazione, più che di un lucido pensiero, e trasmettervelo quindi... diventa un po' complicato.
E' il narrare, è l'usare il corpo, è l'affermare "io sono" - in un certo qual senso l'esaltazione dell'io, che per un egocentrico qual sono... ^_-

Attori che non hanno paura di essere accoltellati sono i Bobo che non hanno paura di essere feriti nei sentimenti: il motivo per cui faccio teatro è trovare la centratura in me.
La base del mio equilibrio, sociale ed umano. Che non è esattamente l'identità.
Là dove la notizia del ricovero scuoteva i paletti delle mie sicurezze richiedendo una nuova collocazione (non estremamente diversa) di mio fratello e mia, nel panorama della percezione del reale, e scuoteva un pochino anche le vecchie paure di perdita della mia razionalità (come se avere un parente stretto in quello stato significasse che 'per vicinanza' potevo essere a rischio anche io - del resto io e lui abbiamo diviso camera per almeno vent'anni), ecco, là, io però riuscivo, anche grazie all'esperienza appena conclusa - Ludika e teatro - a non sentirmi proprio perso.
Al di là dell'appartenenza a un gruppo, che è pur sempre un gruppo fatto d'individui (com'ho imparato a Granada), era proprio il percepire che, grazie al teatro, ero più stabile.
La figura che ho richiamato alla mente era quella di uno dei banchetti della fiera: quattro pali di legno legati assieme ad un'estremità e poi aperti sul terreno a formare una piramide a base quadrata. E a metà altezza, fissata con del cordame, una 'barella' tra i pali a far da ripiano.
Ricordo deliziosi anni di vecchie edizioni di questa manifestazione in cui, su simili banchetti, mi rannicchiavo, accoccolavo la sera, quando tutto andava finendo, a fumarmi una sigaretta, guardare la gente passare, gustarmi l'aria di fiera.
Quest'anno, purtroppo, non è stato possibile...


GrimFang

Nessun commento: