L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

giovedì 7 febbraio 2008

MINI MART

La sveglia fu particolarmente fastidiosa.
Stavo facendo un sogno bellissimo, ero al MiniMart con tre o quattro poppute pinup stile conigliette di Playboy che pubblicizzavano una nuova crema corpo idratante, o qualcosa del genere. Be’, avevano appena cominciato a fare la seconda passata e una di loro, Bunny, aveva appena detto “Che dite ragazze, glielo facciamo un trattamento col corpo?” quando quella bastarda ha suonato.
‘fanculo, mi sono tirato a sedere sul letto bestemmiando e l’ho spenta con un sonoro cazzottone.
Sono rimasto abbrutito e brontolante sulla sponda del letto, poi a tentoni ho cercato il telecomando delle persiane. Fuori era mattino pieno.
A quel punto avevo due scelte: potevo avere davanti un giorno del cazzo o una buona giornata.
Optai per la seconda: mi misi in testa il cappello di Pippo, quello con le orecchie lunghe che ti scendono sulla faccia, e mi andai a lavare.
Io ho questa teoria: che quando ti alzi la mattina sei tu a scegliere le tue giornate.
Insomma, se ti disponi bene, la giornata non può andare di merda più di tanto. A patto che ci siano giornate in cui tu deliberatamente decidi che ti girano i coglioni. Pensare di avere sempre solo giornate positive non funziona.

Mi chiamano Marshmallow, anche se mi chiamo Mark, o Marcus com’è scritto sui documenti.
Vivo a Chattabalooga, un buco del culo di posto che ha come principale attrattiva il centro commerciale Mini Mart sulla Lincoln Avenue, che sarebbe anche l’unica strada decente del paese, da quando Angus, il tipo che si occupava delle sistemazioni stradali, è morto. Insomma, è l’unica dove ci puoi andare via dritto a cinquanta miglia con su una bella cassetta nell’autoradio.
Lì al Mini Mart ci puoi trovare di tutto: dai generi di prima necessità al paradiso del superfluo. E non finisci mai di scoprire nuove cose: io e Stan – il mio migliore amico – l’altro giorno ci abbiamo trovato una poltrona col vibromassaggiatore. No, non una di quelle sedie che vibrano, proprio una poltrona con una taschina sul sedile, che dentro c’era proprio un vibromassaggiatore. Un cazzo di gomma, insomma.
Quindi, siccome a Chattabalooga non c’è un cazzo da fare, io e Stan tutti i giorni andiamo al Mini Mart.
Lavoriamo lì, be’, si può dire così.
Intendo, a nessuno dei due piace stare sempre a fare le stesse cose, quindi va a finire che si cambia spesso. Tanto, almeno questo, non si può dire che a Chattabalooga il lavoro manca.

La colazione è un momento fondamentale della giornata. Non puoi sperare di avere una bella giornata se non fai una buona colazione.
Quindi, dopo aver messo su una maglietta bianca e la mia camicia a scacchi blu preferita, in testa sempre Pippo, mi cucinai due belle uova fritte su pane in cassetta, bacon, un tazzone di caffè patriottico e tirai fuori dalla scatola due o tre donuts dell’altro ieri.

Potendo scegliere – siamo in un paese libero – ho preso una Mustang.
Morde la strada come poche, e dà delle belle soddisfazioni: non si ferma facilmente e fa un sacco di miglia all’ora, a tavoletta. Semmai decidessi di andarmene da questo posto.
L’ho presa blu, che ormai dovreste aver capito che è il mio colore preferito. E ha due righe bianche parallele che la percorrono dalla testa alla coda. Una figata.
La tengo in garage, ma ci tengo a pulirla all’aperto almeno una volta alla settimana.
Ora che ci penso – mi viene sempre in mente ma poi me lo dimentico – devo ancora darle un nome.

Fuori dal garage, dopo aver controllato a destra e sinistra, presi giù per Cypress Street verso la Lincoln, deserta.
Il negozio del signor Drummond, all’angolo, aveva ancora la porta aperta.
Gran bel negozietto, uno di quei locali dove si vede l’impronta del calore umano.
Uno di quei posti dove – ci vado sempre a prendere quello che mi serve su a casa – tutto ti dice qualcosa del proprietario. È un buco, saranno venti metri quadri, ma ti raccontano del signor Drummond: di un omino sui settanta che ripone con amore le merci sugli scaffali, che ama l’odore delle caramelle gommose nella boccia di vetro sul bancone, che ama il sole che sbatte sull’asfalto dell’avenue e gli riscalda il locale l’estate…
Eh, già, negozietti così vengono sempre più ignorati nell’epoca dei supermarket e dei centri commerciali. Adesso è deserto come Chattabalooga.
E persino io sto andando al Mini Mart.

Spingo la Mustang sulle corsie deserte, passo oltre la Chrysler abbandonata e arrivo all’incrocio con Washington Avenue, che chiamarla Avenue è stato un eufemismo, almeno la Lincoln finisce sulla statale.
Passo la piazza del municipio, tiro dritto.
Ci sono due figure che attraversano la strada.
Sterzo, le tiro sotto.
Le avrei ignorate, ma una dei due, la donna, aveva un accostamento orribile: gonna arancione e giacca verde pisello. Pessimo gusto.
Rallento, controllo se la Mustang s’è ammaccata nell’impatto.
A lato della strada c’è un uomo vestito da poliziotto che agita le braccia. Accosto. Abbasso il finestrino.
“Sì, agente?”
Un secondo dopo il poliziotto cade a terra con un proiettile nella fronte.

Il Mini Mart l’hanno tirato su dall’altro lato della città, quello più vicino alla statale.
Mossa furba, perché lì ci sta anche la fermata dell’autobus e c’è anche – ma l’hanno spostata dopo, se mi ricordo bene – la stazione dei Greyhound per Milwaukee.
Davanti c’è un grosso spiazzo sterrato, ci dovevano costruire chissà che cosa ma adesso è abbandonato. Come ogni volta, mi diverto a far girare la Mustang sullo sterrato.
Poi taglio la Lincoln e arrivo al parcheggio del Mini Mart. Ci sono diverse macchine, ma io ho il mio posto particolare.
Fermo la Mustang sotto la grossa rampa marrone delle scale di emergenza, a fianco all’ingresso per gli impiegati. Scendo, tiro fuori le chiavi e mi dirigo verso la bianca porta antipanico. Le infilo nella serratura, giro, sblocco la maniglia e apro.

Dentro, lo stesso deserto di Chattabalooga.
Mi prendo il camice da lavoro dalla rastrelliera, saluto Dan, tiro dritto alla rampa delle scale mobili – ferme – e arrivo al primo piano. Supero Daisy, Linda, Elaine (ma saluto solo l’ultima) e arrivo alla rampa per il secondo piano. Prima di salire, però, tiro dritto fino al bar, passo dietro al bancone e mi verso un po’ di caffè caldo nella tazza bianca e gialla con le api e le margherite, afferro al volo una ciambella ancora calda dalla scatola di cartone, saluto Stan che sta armeggiando con la serranda del negozio anche lui con una ciambella in bocca e gli faccio cenno di raggiungermi sopra.
Al secondo piano, poso la tazza sul ripiano bianco del tavolino tondo dove mi fermerò come al solito a finire la seconda colazione, e vado verso la serranda elettrica del mio negozio. Sulla sedia girevole del negozio del barbiere, che mi dà le spalle, c’è quel gran pezzo di merda del mio capo.
Resto un po’ a guardarmelo sogghignando, poi tiro su la saracinesca.

Il mio regno.
Fucili da caccia, fucili a pompa, pistole, mitragliette, persino un M16 dietro la sua vetrina, ricordo di quando il bastardo faceva parte dei marines. E proiettili di ogni specie, coltelli, e tutta l’utensileria di un negozio di armi ben fornito.
Mi piace il mio lavoro.

Dopo aver aperto il negozio, torno alla mia tazza di caffè.
Parte la musica di sottofondo del centro commerciale, Stan deve aver dato la corrente. Oggi c’è un lento brano country.
Meno male, ieri Stan aveva messo i Sepultura e m’era venuto mal di testa…

Stan mi raggiunge salendo a grandi falcate la rampa della scala mobile.
“Allora Marsh, come va?”
La mio occhiata e il cappello di Pippo gli chiariscono la situazione.
“Dormito male?”
“Svegliato male.”
Stan poggia la sua tazza sul tavolino, e si siede sulla sua sedia.
“Stavo sognando tre conigliette di Playboy che mi spalmavano il corpo di essenze profumate, e la sveglia del cazzo ha suonato proprio quando avevano deciso di spalmarsi loro su di me…”
Stan sorride. È la cosa che più mi scalda il cuore, vederlo sorridere.
Non dice molto, ma è quello che ci lega a rendere speciale persino il silenzio. È il mio migliore amico, be’, l’unico amico.
In quel silenzio, c’è tutta l’intima comprensione di due esseri vicini, simili e affini. In quei momenti siamo come due eletti che governano il mondo, perché c’è qualcosa di semplice e talmente speciale al tempo stesso, che nessuno al mondo potrà mai capire.
E tantomeno condividere.

“Marsh, qual è il tuo ricordo più bello?”
“Uh?”
Era tipico di Stan uscirsene con queste domande a cazzo per movimentare la conversazione.
“Dai! Hai capito, qual è il tuo ricordo migliore?”

Da basso venne un rumore di lattine che rotolavano.
Io e Stan ci tirammo in piedi e guardammo giù dalla balaustra. In mezzo all’atrio del centro commerciale una figura era andata in qualche modo a sbattere contro la pila dei lubrificanti per auto e aveva fatto cadere un barattolo.
“Eh no, cazzo!” – proruppe Stan – “Ci ho messo una settimana a tirarle su bene!”
Come al solito esagerava, ci avrà messo un paio d’ore al massimo, ma si diresse a grandi passi verso il mio negozio, e ne uscì poco dopo con un fucile di precisione. Sollevai un sopracciglio, mentre Stan si affacciava, prendeva la mira e sparava.
La figura fece una mezza capriola all’indietro, mentre parte del suo cranio andava a decorare il pavimento.
“Siamo chiusi!” – gridò Stan.

Non so, forse l’occhio mi ci cadde per caso, ma mentre Stan si chiedeva come cazzo era entrata, mi parve di riconoscere quel corpo steso sul pavimento.
“Hey, quella non era Daisy Arbuckle?”
Stan rimase di sale. Non immaginavo, non ricordavo nemmeno che avevano fatto il liceo insieme. Non potevo sapere.
Stan era diventato improvvisamente pallido. Si mise seduto. Era chiaro che non aveva il coraggio di guardare giù dalla balaustra.
Oppure aveva appena realizzato chi aveva visto per un istante nel mirino.

“Daisy è stato il più grande amore della mia vita.”
Se ve la racconto io, sembrerà sicuramente banale, ma detta come la disse Stan, questa frase significava davvero le tante cose che racchiudeva.
Era piena di affetto, e di ricordi. Piena di quel legame speciale che mi univa a Stan, e che quindi mi rendeva, in parte, parte di quei ricordi. Daisy era ora come un’assenza in quella che avrebbe potuto essere l’affermazione “noi tre”.
“Cazzo.”
Stan ora sedeva sulla sedia di Marsh, e Marsh sulla sua. Tirò via, più lontano da sé, la tazza del caffè – la mia – che gli stava davanti. E capisco che non aveva nessuna voglia di sollevare lo sguardo verso il suo amico leggermente soprappeso, con l’aria mortificata da cretino – come se lui c’entrasse qualcosa – e in testa un ridicolo cappellino con Pippo.
Quando parlò il suo tono era funebre e dolente.
“E dire… t’avevo appena chiesto il migliore dei tuoi ricordi… be’, il mio era lei.”

Mi sentivo impacciato.
Non sapevo come consolare il mio amico, non ne avevo la più pallida idea.
Stan non piangeva. Non ce l’avrebbe fatta. Nemmeno io ci riuscivo più. Sarebbe stato stupido pretenderlo.
Così, non mi muovevo nemmeno. Restavo con l’aria abbacchiata, a spostare lo sguardo tra lui e il tavolino.
Restammo davvero a lungo in silenzio. Con la musica country di sottofondo.

“Be’, io vado… a… insomma, vuoi venire… almeno la togliamo da lì…”
Mi alzai e lo dissi proprio quando non ce la facevo più. Dovevo fare qualcosa, e questa era una cosa sensata, e razionale.
Stan sollevò lo sguardo, in cui brillò un silenzioso grazie, e poi annuì gravemente.
“Sì… È giusto.”
Si tirò in piedi, deciso a smettere di soffrire straziandosi nei ricordi e a fare qualcosa. Ma quando mi girai e feci due passi fino all’inizio delle scale mobili, l’occhio mi cadde sul fondo, due piani più sotto, dove c’era soltanto un paio di barattoli per terra e una sbaffata di sangue e materia cerebrale.
“Oh cazzo. Stan! Non è più lì!”
Stan si precipitò alla balaustra, preoccupato.
“Come non è più lì?”
“Non è più lì, cazzo, guarda! Non l’hai presa bene!”
“Merda!” – e corse a prendere un paio di fucili a canne mozze. Tornò subito e me ne lanciò uno, porgendomi poi la scatola delle munizioni. Caricammo velocemente e ci riempimmo le tasche di cartucce, poi scendemmo al primo piano.
“Dobbiamo trovarla, questo centro commerciale è un puttanaio di nascondigli!”
Passammo al setaccio la zona del bar e i due negozi di abbigliamento lì a fianco. Poi passammo i cadaveri delle tre commesse e imboccammo il corridoio del primo piano. Tre dei quattro negozi avevano le serrande chiuse, quindi non poteva essere entrata lì. Il quarto era vuoto.
Quindi era ancora al primo piano. Il che era un grosso problema, perché lì c’era il supermercato.

Gli ultimi gradini della scala mobile, disattivata perché consumava troppa corrente, li facemmo a fucili spianati sui fianchi.
Il problema principale del supermercato erano gli scaffali. In pratica, era un labirinto. Gli scaffali erano ostacoli allo sguardo, dovevamo infilarci nel labirinto, per trovarla. Questo voleva dire che Stan avrebbe dovuto tenere d’occhio una parte, e io quella opposta, pronti a far fuoco se Daisy avesse dovuto farsi ‘viva’ all’improvviso. Com’era tipico di tutti quei bastardi.
Come aveva fatto il signor Drummond nel suo retrobottega.

Passammo i surgelati senza problemi. Lì ci sono i banconi-frigo che sono bassi, era più facile.
Io e Stan avevamo già pianificato il percorso migliore, tempo prima, ma quella era la prima volta che ci trovavamo a sperimentarlo. Eravamo entrambi piuttosto nervosi.
Passammo anche i cereali e la prima colazione, arrivando fino ai banconi-frigo per la carne. Erano tutti vuoti perché la merce a breve scadenza l’avevamo tutta surgelata nelle celle frigorifere sul retro. Il casino era che, mentre noi ci muovevamo là dentro, lei poteva riuscire dall’altra parte e andare dove voleva nel Mini Mart, senza che noi ci accorgessimo di niente.
E questo voleva dire che, se non la trovavamo lì, dovevamo ricontrollare tutto l’edificio da capo, e tenendo continuamente sotto controllo l’atrio del centro commerciale – in particolare l’ingresso del supermercato. E se non la trovavamo…
Poteva voler dire dare l’addio al Mini Mart. Non sarebbe più stato un posto sicuro. Poteva essersi nascosta in un posto qualunque e il giorno dopo, o un giorno qualsiasi, poteva saltarci addosso all’improvviso.
E il Mini Mart era il nostro mondo. Tutto quello che ci restava.
Lì c’era tutto quello di cui avevamo bisogno.
Daisy Arbuckle rischiava veramente di cacciarci dal paradiso.
E se lei se ne fosse semplicemente andata da dove era entrata, noi non l’avremmo mai saputo, e avremmo abbandonato il Mini Mart per nulla. A proposito,
“Da dove è entrata?!”
“Che?”
“Daisy Arbuckle. Da dove è entrata? Le porte sono tutte sane, le abbiamo chiuse coi lucchetti. Per quelle antipanico si aprono solo da dentro o con le chiavi. Da dove cazzo è entrata?”
Stan fece il perplesso.
“Ma che t’importa da dove è entrata? Voglio dire, prima occupiamoci di stanarla, poi…”

Quello che ancora non avevo pensato, ma che era lì lì per arrivare, ce lo trovammo di fronte all’improvviso.
Dietro lo scaffale dei prodotti per la pulizia della casa, all’angolo di quello per l’igiene del bagno. Wes Cradle, il benzinaio, ed il corpulento signor Watson, della compagnia di assicurazioni, già voltati verso di noi. Cradle stringeva una mazza da baseball nel pugno, decisamente minacciosa. Ci si scagliarono addosso, ruggendo, prendendoci alla sprovvista.
Aprimmo il fuoco, ma era troppo tardi. Tardi per mirare alla testa, tardi per evitare che Cradle si gettasse di peso su Stan. Watson era troppo ciccione per andare giù alla prima botta. Gli scaricai contro tutto il caricatore, preso dal panico, ma ancora stava in piedi. Stan nel frattempo era riuscito a mettere il fucile contro il collo del benzinaio, tenendogli lontana la testa, e spingendolo con tutta la forza che aveva adesso gliela sbatteva contro lo spigolo del frigo delle bevande. Riuscivo a vedere la testa di Cradle che si apriva mano a mano.
Ma il problema era l’enorme Watson, che non sembrava più intontito dai colpi al petto, dove la sua camicia pesante adesso sembrava un ricamo all’uncinetto zuppo di sangue. Grugnì e riprese a muoversi, grazie al cielo puntando me e non le gambe di Stan che gli stavano praticamente sotto.
mi dissi
L’assicuratore era sempre più vicino, e mi tremavano le mani, ma proprio quando le sue mani si stringevano sulle mie spalle – con una forza spaventosa – riuscii a infilare la canna del mio fucile sotto il suo mento e fare fuoco. Ci fu una fontana di carne e sangue verso il cielo, poi il bestione barcollò e, prima che crollasse sopra di me, riuscii a divincolarmi dalla presa e a fare un passo laterale.
Stan si rialzò in piedi e cominciò ad usare furiosamente il suo fucile come una mazza da golf contro la testa del benzinaio, fino a spappolarla.
Mentre Stan era in preda alla furia omicida, mi venne in mente da dove – per quanto improbabile – potevano essere entrati. Corsi verso l’atrio. La salma di Dan, la guardia giurata del Mini Mart, non era più dove l’avevo salutata quella mattina.
Mi si prospettava davanti lo scenario inquietante di un’intelligenza residua in quelle persone.
La mancanza di carne, di prede vive, poteva avergli aguzzato l’ingegno fino a quel punto?
Rifeci i miei passi di quella mattina all’indietro, e osservai con terrore il cadavere di Dan che teneva aperta la porta antipanico. Da guardia giurata a ferma porta.
E da lì stavano entrando altre due figure.
Divennero ferma porta anche loro. Ma nessuno dei due era Daisy.
Era dentro? Era fuori? Ma soprattutto, quanta gente c’era che si stava radunando fuori?
Contai rapidamente le cartucce e mi affacciai allo spiraglio aperto. Ne tirai giù tre, ma ce n’erano altri nel piazzale del parcheggio. Liberai con fretta febbrile la porta dagli ostacoli e la richiusi.
Corsi come un forsennato fino all’atrio e mi lanciai verso le scale mobili, gridando
“Stan! Trova Daisy!”
Al secondo piano presi il fucile di precisione che Stan aveva lasciato appoggiato alla balaustra e mi assicurai che ci fossero abbastanza cartucce. Quindi tirai fuori il mazzo di chiavi del Mini Mart di Dan e aprii la porta di ferro che dava l’accesso al tetto. La luce del sole di mezzogiorno mi prese come un cazzotto in fronte. Mi lanciai verso la scala antincendio (dalla quale non potevano salire, per via dei cancelli) e scesi fino alla prima piattaforma, da cui potevo avere una buona visuale del piazzale.
Li contai, erano una decina.
Avevo abbastanza proiettili. Cominciai con Petey, il figlio dei Leibowitz, perché era il più vicino al muro e poteva uscirmi dalla visuale. Poi con miss Mahoney, il signor Patterson, il signor Glabe – erano mesi che non mi capitava di vederlo –, l’agente O’Riordan, il capitano della squadra di football, poi il tizio che aggiustava la segnaletica a Chattabalooga, la signora Fante e infine due tizi che non conoscevo.
Controllai che non ci fossero altri movimenti, specie alla base della scala e vicino alla mia Mustang, poi rientrai di corsa.
Chiusi la porta dietro di me, a doppia mandata. M’infilai una pistola nei pantaloni, presi altre cartucce per il canne mozze, misi a tracolla il fucile di precisione e scesi cauto e molto, molto più lentamente di quanto ero salito.

“Stan!” – gridai – “Stan, l’hai trovata?”
“Sì!” – gridò in risposta – “…Era qui… nel supermercato!”. E dal suo tono di voce pensai che doveva aver sofferto davvero molto a farla fuori.

Arrivai ai cadaveri di Cradle e Watson e proseguii oltre, verso la zona dei prodotti ortofrutticoli. Non c’era.
“Stan?”
Continuai verso la zona con le videocassette, superando il reparto giardinaggio e quello delle medicine. Stan era lì, seduto contro al muro. Daisy, senza testa, stava sdraiata scomposta sul pavimento.
Stan piangeva.
Io ero vuoto, in una bolla di nebbia.
“…lei lavorava qui, ricordi? Guarda… stringe ancora in mano la chiave…”
Io ero un involucro di cartapesta.
“…capisci com’è entrata? Con la chiave!... cazzo, con la strafottuta chiave!...”
Io non capivo più niente.
Io non volevo capire.

“Ti… ti hanno m-morso?”
Stan aveva il viso rigato dalle lacrime. Si reggeva il braccio che buttava sangue, risposta evidente alla mia domanda inutile.
“Sparami, Marsh. Sparami, non farmi fare quella fine…”
L’avrò sentita cento volte quella frase, nei film.
Ma provate a sentirvela dire dal vostro migliore amico.
Provate a pensare voi che fareste.
Che provereste.
“… Stan, non ce la faccio…”
Piangevo.
Non lo vedevo quasi più, tra le lacrime. Sapevo che era peggio che morto, ma lui era Stan.
Stan, capite?
“Sparami, cazzo! Sparami! Non voglio diventare un mangiacarne rincoglionito e senza memoria!”
Ci provai. Ci provai disperatamente.
Ma non riuscivo a non pensare che forse, forse c’era il modo di salvarlo, amputargli il braccio, o magari, chissà, Stan si sarebbe trovato bene tra di loro… senza pensieri, senza problemi, solo alla ricerca di carne fresca. Sangue vivo.
“… sparami Marsh, ti prego… cazzo…”
Si sarebbe trovato bene. Bene, con la maggioranza.
“…Cristo! Sparami… finché mi ricordo di te.”
Sollevò lo sguardo verso di me. Implorante, tra le lacrime.
Si sarebbe…
Senza ricordi.

Arrivai alla Mustang con calma, e mi accesi una sigaretta.
Il sole stava tramontando, dall’altro lato del Mini Mart. Il cielo era colorato a pastello, per strisce orizzontali.
Intorno, tutto sembrava deserto.
Aprii il portabagagli e ci buttai dentro gli zaini con le provviste e le armi di riserva, con pallottole e cartucce in abbondanza. Aprii lo sportello e dentro misi tutto l’occorrente per accamparmi, sacco a pelo, zaini, fornelli a gas, torce elettriche e batterie, e tutto quello che avevo pensato potesse essermi utile.
Tornai a guardare il panorama, e la città fantasma che si stendeva di fronte a me.
Chattabalooga non aveva più niente da dirmi.

Salii su Daisy e partii sgommando.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

giusto un saluto, per far vedere che ogni tanto passo e leggo...e gradisco!
un abbraccio
Sergio

Anonimo ha detto...

a me è piaciuto

Anonimo ha detto...

anche te qui?