L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

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Fire cup

domenica 24 febbraio 2008

THE JACKET

Rovistavo fra i miei files quando è saltato fuori questo... Il film, "The Jacket" è uscito in Italia oramai un paio d'anni fa, quando ancora aleggiava nell'aria l'inizio della seconda guerra in Iraq e si profilava all'orizzonte quello che sarebbe stato il secondo conflitto più lungo nella storia statunitense.
Ma è un film che c'entra poco con l'orizzonte delle guerre, e molto, invece, con le domande ataviche che ci portiamo dietro: "chi siamo?", "dove andiamo?"...
E' inutile stare a sottolineare quanto abbia amato questo piccolo film sconosciuto, passato nell'ombra e sottotono, eppure così prezioso; con un Adrien Brody appena uscito dal successo de "Il pianista" e dal non-so-come-sia-andato "The village".
E' invece utilissimo specificare che questa recensione la si apprezza molto avendo visto il film in questione, mentre ci può anche rodere il culo se non l'abbiamo visto perché in parte ci sputtana la trama, ed in parte fa dei riferimenti per i quali si rischia di non capire una mazza se non si è visto il film. Ma del resto questo, forse, è più un saggio di critica che una vera e propria recensione.
Per quel che riguarda la recensione, beh, il giudizio sarebbe "Che fate ancora lì?! Alzate il culo razza di un branco di lavativi, e andate a vedervi questo film! Scattare!!".
^__^

Perché andare al cinema a vedere una metafora

Chi è Jack Starks?
Jack Starks è due cose. È giovane. È americano. Tutto il resto, qualsiasi cosa, compreso l’essere un soldato in Iraq durante i giorni duri del conflitto, lo perde all’inizio del film. Il meccanismo brillante del teaser “Avevo 27 anni la prima volta che sono morto” è l’ingranaggio ad orologeria dell’inizio, non della fine del film: non inseguiamo una storia per capire come sia possibile giungere alla fine ad una simile – paradossale – affermazione, come tra l’altro viene logicamente in mente mentre ci predisponiamo alla visione in una saletta ai margini del grande circuito, bensì lo adottiamo come punto di partenza! Si tratta, insomma, di una premessa teorica spaesante – proprio perché DEVE straniare il personaggio, come una catarsi che riazzeri la sua entità allo zero minimo, alla sua essenza metaforica – che introduce la storia, e non di una storia finalizzata a chiarire il mistero racchiuso in una simile frase.

Jack Starks muore. Si riazzera, come dicevo, e si fa uomo qualunque, John Doe della situazione che si troverà a vivere, involucro perfetto per una metafora. Ed in quattro e quattr’otto lo troviamo su di una strada ghiacciata, privo di radici e di meta, che prova a stabilire un contatto umano: presta il suo aiuto, ma viene rifiutato. L’esterno è sospettoso, impaurito, e solo chi ha il candore di bambina riesce a vedere le cose senza filtri, con la naturalezza di ciò che sono. L’uomo Zero compie azioni positive, dà e chiede aiuto. Ne riceve diffidenza, ostilità, falsa amicizia ed inganno. In men che non si dica, l’uomo Zero, questo uomo nuovo di zecca preso ed immerso nel tessuto degli Stati Uniti d’America, è vittima: viene processato, e internato in un manicomio; nel quale viene, non esiste altro termine, torturato.
Riprendiamo un momento il filo dell’esposizione. Jack Starks è un giovane americano, puro, bendisposto. Appena si confronta con la realtà americana finisce recluso e torturato. Ce n’è abbastanza per poter dire che in America non c’è posto per gli Starks? Ma qui c’è il punto di svolta della storia; qui c’è un “eppure”.
Eppure i Jack Starks, rinchiusi, presi per pazzi quando non lo sono affatto, torturati, sognano. E cosa sognano? Guardano avanti, vedono il futuro. Di più, lo vivono. E nel futuro, per loro, per quanto negativo possa essere, c’è una speranza. C’è una donna che dà un passaggio ad un tipo tumefatto in mezzo alla neve. C’è l’annientamento della diffidenza (che nasce, se vogliamo, da quella briciola di umanità che i Jack Starks hanno seminato in passato). La fine della paranoia. Certo, la lotta è dura, e la paranoia è dura a morire, ma nel sogno, pian piano, essa viene sconfitta, così come, nella realtà del tempo attuale Jack Starks opera, agisce, pensa, libera e contamina non solo i suoi compagni di prigionia (riuscendo a far ammettere ad uno dei suoi compagni che in realtà è stato solo abbandonato dalla moglie e che la sua “follia” è prettamente figlia della solitudine), ma anche parte di quello staff medico che opera la sua reclusione nella benevola convinzione che così li si stia salvando, li si stia “curando” (ma da cosa?). E questo fino all’apoteosi finale, in cui persino il medico che lo sta torturando rivela la propria umana fragilità, e la convinzione personale di aver sempre agito in positivo. Il sistema isola, previene, “cura” persone sane contro la loro volontà: tribunale ed ospedale psichiatrico sono istituzioni con gli occhi chiusi che “sperimentano” sui fragili ipotesi di “controllo uguale sicurezza”, “punizione uguale controllo”; quando in realtà è la gente paranoica, diffidente, isolata e dunque sola (la madre della bambina), strafatta di droghe, anestetici e televisione e che vive talmente in profondità la propria solitudine da restare sola anche dentro se stessa, nella famiglia, distante dalla propria carne di figlia (piazzata a guardare un televisore in salotto) quasi tanto quanto dal mondo, incontrollabilmente preda solo del proprio istinto protettivo (ah! Quanto insegna ancora oggi la madre isterica di Shining!), bene, quando è proprio quella gente ad essere ormai priva di controllo, e quindi di libertà.
Jack Starks no. È ancora libero, e dotato di quello sguardo da bambino che è pieno di, e reclama, libertà. Solidarietà. Legame col prossimo. Ed è proprio il nucleo di forza dato dal suo rapporto umano con un altro nucleo a spezzare i vincoli di solitudine che sono alla base della diffidenza e quindi della distanza. E può morire adesso per vivere in un futuro che, una volta tanto, è davvero possibile.
“The Jacket” è la storia di un uomo che cambia il mondo. Niente più, niente meno. E il suo delicato meccanismo di corrispondenze e metafore ci consegna un messaggio semplice – come tutti i grandi messaggi – che vuole suggerirci dove dobbiamo lavorare, su cosa, per poter felicemente riprendere in mano, e dare concretezza, al fondamento di ogni futuro: la speranza.

Buona visione, e, se l'avete visto, buona discussione.


GrimFang

1 commento:

Anonimo ha detto...

vogliamo un altro post