L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

lunedì 19 marzo 2007

De Satirae

Certa gente stanno fuori. Ricordate che per un bel periodo giravano gli esperimenti Mentos+Diet Coke? Beh, magari si è un po' esagerato, e sono usciti gli anticorpi....

Satira è l'anagramma di risata.
Non ci avevo mai pensato.
E in effetti, si tratta di un modo tutto particolare di farsi una risata.
Tanto per cominciare, perché si ride sempre di cose vere, terribilmente vere: la satira, si fa sempre sull'attualità. E in particolare su quella più scottante: la lingua batte dove il dente duole, ma invece di sentir male, si ride.
Si ride spesso amaro, come in tutto quello che in "Viva Zapatero!" ci fa vedere Sabina Guzzanti.
Si ride goliardicamente sollevati, al sentir/vedere che "il Re è nudo", alla maniera di Dario Fo.
Eppure, a ben pensarci, anche in questa risata dovrebbe esserci un che d'amaro: in primis, perché quel re è pur sempre il nostro re - e non è bello essere retti da un deficiente - in secondo luogo, perché "sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al Re".
Mi spiego.
Vedo una vignetta di Vauro, che so, sulle uscite del papa in occasione dei Dico. Anzi, quel pezzo in cui Crozza fa Ratzinger che dice "Pax in terra! ...pax... Pacs... no, forze è melio ti no", e rido. E mi si risolleva un po' l'animo, per cui, quando continuo a sentire delle interferenze del Vaticano nell'amministrazione di uno stato nazionale laico, mi torna in mente Crozza e le palle mi girano meno di quello che dovrebbero.
Adesso, l'esempio, come ogni esempio, non rende al meglio ma dà l'idea.
E' il motivo per cui fare di Berlusconi una macchietta, anche se già lo è di suo, ci ha aiutato, sì, a sopportarlo, ma ci ha anche in qualche modo impedito di tirarlo giù dal piedistallo e dalle sue scarpe col tacco alto.
Non scherzo: Berlusconi, a causa della satira, ci è diventato familiare. Lui, un corpo estraneo della politica, del senso civile, di ogni valore e moralità. Qualcosa che ai nostri anticorpi avrebbe causato una crisi di rigetto.
Invece la satira lo ha 'sdoganato' come uno di noi. Forse gli ha impedito di trasformarsi in tiranno, forse in qualche modo lo ha arginato, relegandolo all'uomo qualunque, di poco conto, ma in fondo credo che gli abbia reso un grosso favore. Al di là delle (sue) teorie del complotto comunista e delle crociate contro la satira.
Ve lo ricordate il dilemma di Riot? La satira deve fare ridere?
Riot faceva ridere?
A me, ad essere sincero, faceva ridere poco.
Faceva pensare.

Perché la satira ha questo duplice aspetto.
Fa ridere, ma fa anche pensare. Purtroppo, questo secondo aspetto è opzionale.
Ovvero, della satira si ride sempre, se ci va e non ci sentiamo piccati o chiamati in causa o siamo noi l'oggetto di satira. Ma si può scegliere (o evitare) di pensare. Successivamente, quando si spegne la tv o si ritorna a casa.
E più si è abituati a ridere per ridere (com'era il titolo di un bel film di tanti anni fa), più si è portati a confondere la risata con la risatira... mi si perdoni il neologismo. Anche perché la risatira la senti, che in fondo ti brucia. E alle cose che bruciano non ci vuoi pensare. Insomma, non è poi così divertente pensare che sei stato impotente per cinque anni (ma sono molti, molti di più) ad assistere allo sfascio della politica italiana, che sei tuttora incapace di avere una classe politica che ti rappresenti degnamente e che abbia - lei, che dovrebbe averlo di default - quello che hai tu - che dovresti averlo, ma è un optional -: il senso della dignità.
Delle cose, delle persone.

Chiariamoci: non si ride col Bagaglino.
Non è satira, a mio giudizio, e non è risata. Non è spernacchio: lo spernacchio, Fo sarebbe d'accordo, non è mai ossequioso.
La satira ha dignità. Il Bagaglino no, quindi non è satira.
E infatti, le risate che produce - perché ne produce, nessuno lo nega (certo, in chi è molto disposto a riderci) - sono risate vuote, fini a se stesse. Fini... hmmm, vabbé. Finiscono lì, insomma.
Vedere un 'sosia' di Andreotti che prende una torta in faccia in effetti può essere solletichevole al palato come un impasto di cipolle, mostarda e code di acciuga.
Per chi può, andatevi a rivedere lo sketch di Alighiero Noschese e Ugo Tognazzi dove il primo fa il cavaliere che va alle crociate e cerca uno scudiero, mentre l'altro fa il fabbro contadino che non ha nessuna voglia di andarci. A un certo punto Noschese fa "Insomma! Vuoi dire che tu preferisci la falce e il martello allo scudo crociato?!" e Tognazzi annuisce...
^__^

E noi invece...

Finiamo col costruirci il palato in base allo squeraus televisivo.
Perché è da lì che viene il 90% della nostra satira.
Che è anche satira di costume, per carità.
Ma è nella stessa parola satira che si nasconde la politica, intesa in senso ampio. Perché il bersaglio della satira è sempre un potere imperante. Che sia una persona, una moda, un pensiero. E' il prendersi gioco dell'ottusità delle persone che non si rendono conto di come stanno effettivamente le cose.
E' il meccanismo de "il Re è nudo", e nulla è cambiato, da lì.
Uno sketch che presentasse una ragazzetta tutta contenta della nuova tariffa tutto incluso, che le dà il cellulare, la fa chiamare a zero centesimi al minuto con tutti e tutte le nazioni, ovunque si trovino, pure se non vogliono, che c'ha il gprsqwz (o gippierreesseccuvvuzzeta), il puk, il pin, il P.i.l., seimilanovecento suonerie ma tanto c'hai sempre la stessa e solo 100 euro di scatto alla risposta, è satira di costume.
E si ride.

Ma si pensa?
Quante persone, dopo uno sketch del genere, si spulcerebbero la tariffa che hanno sul cellulare? Si informerebbero? Cercherebbero un altro operatore?
Sono io il primo - che lo sketch l'ho testé inventato - a non farlo.
Perché sono pigro.
Perché siamo narcotizzati.
Ci stiamo lasciando andare all'oblio: una risata, bella, piena, lì per lì, e poi una frase che sa di lacrime di coccodrillo, del tipo "oddio, com'era quella battuta lì? ...era così bella...", pronunciata puntualmente quasi cinque minuti dopo.
Possiamo dare la colpa al tempo, alla velocità degli stimoli cui reagiamo, ai nostri proverbiali anticorpi con cui sopravviviamo alla pubblicità televisiva e che portano il nome di distrazione. Ma ogni volta, nell'oblio, insieme alla risata, ci finisci anche tu.

La tua coscienza civile, prima che quella politica (che è un insieme più grande e la ingloba).
E la satira, quella che ami perché ti fa sentire vivo e intelligente, viene via via relegata al ruolo di sporadico elettroshock di coscienza civile e politica che ogni tanto ti concedi.
Poca satira, pochi elettroshock, più narcosi: l'effetto drogante delle diverse satire - delle diverse risate, che comunque vai cercando, perché sennò dovresti piangere - ha la meglio. Il cervello smette pian piano di pensare, e si addormenta. Soprattutto quando la satira la assorbi dalle tv, dove già di tuo devi mettere in moto gli anticorpi per sopravvivere alle pubblicità.

E allora, anche su un blog come questo, fare satira è sempre più difficile. E i ragazzi che prendono in giro i video Diet Coke + Mentos fanno la satira migliore.
Quella che - proprio come gli anticorpi - viene naturale e spontanea.
Coccoliamocela.

Vi voglio quindi lasciare con qualcosa che non faccia ridere, ma faccia pensare.
Che viene da un maestro di satira, dell'arte di far ridere, che è Gigi Proietti.
E' il pezzo sul padre partigiano (se cliccate sul link, vi prego, *ignorate* il video, anzi, ascoltatevelo qua).
Ogni volta che, nello spettacolo Versi TriBellini al teatro Ygramul, lo sento recitare, mi levo gli occhiali, perché so come va a finire...

Mio padre è morto partigiano, a diciott'anni, fucilato nel Nord, manco so dove. Perciò non l'ho mai visto. So com'era da quello che mi' madre me diceva. Giocava nella Roma primavera. Mò, l'antra notte, mentre che dormivo... sarà stato... mah, due-tre notti fà, m'è parso de svejamme all'improvviso e de vedello, come fusse vero. Sulla faccia c'aveva... un gran sòriso, che spanneva una luce, come un cero. "Ammazza come dormi!", m'ha strillato - ed era proprio lui, ne sò sicuro, lo stesso de la foto che mi' madre teneva sul commò, dietro a 'na fronna de parma tutta secca, benedetta, un regazzino. Che ride, in camiciola, cor fazzoletto rosso su la gola - ma siccome io sognavo i sogni miei, pe' la sorpresa, j'ho chiesto... "Ma chi sei?".
"Sò tu' padre" - m'ha detto lui, ridenno - "Forse che te vergogni, alla tua età, de chiamamme cor nome de papà?"
"No, no, papà, te chiamo come hai detto, me fà ride... vedette ar naturale, eh eh, scusame tanto si me trovi a letto, che vòi sapé? Nu' me la passo male, nun sò 'n signore ma 'n po' me c'avvicino, trentadu' anni, davanti c'ho una vita, ancora nun è chiusa, la partita. Lo sai, da quanno mamma s'è sposata co' mi padre... che invece è er mio padrino, eh, credo sett'anni doppo la tua morte..."
E quello ho visto che strigneva l'occhi, come quanno c'è er sole troppo forte.
"...scusa papà, credevo lo sapessi."
Ma lui ridenno, senza facce caso, m'ha risposto, spavardo, spensierato
"Ma che ne so de quello ch'è successo? Io sò rimasto come v'ho lassato. Quanno giocavo, giocavo, giocavo - giocavo a carcio. E mica me stancavo. Giocavo co' tu' madre; e l'abbracciavo. Giocavo co' la vita; e nun volevo. Coi nazisti però nun ce giocavo, perch'io lottavo, lottavo, lottavo..."
Poi m'ha toccato i piedi drento al letto che m'ha fatto venì quasi 'n infarto. M'ha fatto 'n gesto come a dì "...sei arto!".
"Senti" - me dice - "Mo' che sei cresciuto, se nun t'offenni, prima d'annà via, me sai dì che n'hai fatto de la vita, che t'ho data, giocanno co' la mia, vojo sapé: 'sto monno, l'hai cambiato? 'sto gran paese l'avete trasformato? L'omo nòvo è nato o nun è nato? In quarche modo c'avete vendicato?"
E rideva.
Co' l'occhi, coi capelli, sembrava quasi lo facesse apposta. Me sfotteva, hai capito, quer puzzone! Rideva e aspettava la risposta.
"Ma tu che vòi co' tutte 'ste domanne, mo' perché sei mi' padre, t'approfitti!
Tu m'hai da rispettà... io so' più granne.
Vabbè che adesso accampi li diritti, perché sei partigiano, fucilato, ma si me fai svejà io t'arisponno, eh, abbasta solo ch'aripijo fiato.
Certo, che la vita è mijorata. Avemo pure fatto l'avanzata! hanno scritto sui giornali."
"Mejo così!" - me fa - "Se vede ch'è servito. Vedi, quanno che m'hanno fucilato, nun ho strillato le frasi dell'eroi... pensavo a voi, che sullo stesso campo avreste certo vinto la partita, pure che io perdevo er primo tempo."
"Beh, un momento papà, te spiego mejo. Nun è che avemo proprio, già... risolto... ne la misura in cui, ci sta il risvolto... ehhhrr..."
E allora quer regazzo de mi' padre, che stava a pettinasse, ne lo specchio, s'arivorta, me fissa e me domanna
"Ma insomma, adesso er popolo... comanna."
Qui so' zompato subito sul letto: co' 'na mano tenevo la mutanna, co' l'altra cercavo de toccallo, ma nun potevo perché nnn... E allora... J'ho parlato.
Perché m'è presa come... 'na malinconia, nun volevo che se n'annasse via prima de sapé bene com'è stato.
"Sei regazzo, papà, come te spiego... nun pòi capì com'è che cambia er monno... ce vòle tempo, er tempo se li magna li sogni nostri... Io sai che faccio? Aspetto. Tutto quello che viene, io l'accetto. Semo contenti si la Roma segna; li compagni sò tanti, i sòrdi pochi, e nun ce stà più tempo pe' li giochi... Sempre quelli, te strappeno le penne! Ma te nun pòi capì, sei minorenne... si eri vivo te daveno trent'anni, mejo che torni, papà, mejo che torni da dove sei venuto perché quelli, che t'hanno fucilato, proprio quelli, qui, te fanno morì tutti li giorni... lassa perde papà, qui nun è aria, semo cresciuti. Nun semo più bambini. Torna a giocà co' l'antri regazzini, che hanno fatto come hai fatto tu... Noi semo... seri. E nun giocamo più."
A 'sto punto mi' padre s'è stufato, ha fatto le spallucce pe' saluto, s'è rimesso 'n saccoccia la sua gloria, e voltate le spalle se n'è annato, ripetenno ner vento la sua storia
"Ma che ne so de quello ch'è successo? Io sò rimasto come v'ho lassato. Quanno giocavo, giocavo, giocavo - giocavo a carcio. E mica me stancavo. Giocavo co' tu' madre; e l'abbracciavo. Giocavo co' la vita; e nun volevo. Coi nazisti però nun ce giocavo, perch'io lottavo, lottavo, lottavo."

Tempi bui per la satira non sono quelli dove essa è perseguitata (anzi, è proprio lì che prospera - vedi Pasquino), né quelli - utopici - in cui tutto va bene (perché ci sarà sempre un potere da cazziare e mazziare), né quelli in cui gli oggetti dello sberleffo fanno ridere da soli.
I veri tempi bui della satira sono quelli in cui la gente ride, ma non pensa.
I nostri.


GrimFang

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