L'artista mescola il sangue con la terra, per generare sempre nuova vita...

Sarà sicuramente potente, la vita. Piuttosto dolorosa, a mio avviso, a volte sorprendente, sicuramente intensa, vibrante, indubbiamente da vivere. Sempre e comunque.

Sara Tenaglia

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento

Terra, Pioggia, Fuoco & Vento
Fire cup

martedì 13 marzo 2007

Il post definitivo!

Ovvero, il post che sarà accolto con entusiasmo dal 99% dei maschi eterosessuali!

^__^

Già, perché in questo post parlerò di tette e calcio, calcio e tette!!!

^______^

Tutto nasce perché, dalla lontana nebbiosa Albione, l'ennesima ragazza di una lunga lista si chiedeva perplessa perché mai io sia un tifoso di calcio.
Non so, si vede che è una cosa che a prima vista non mi si addice, non si direbbe, eppure...
Cosa c'entreranno le tette?
Niente, è che oggi in metro ne ho viste un paio spet-ta-co-la-ri, incastonate sotto un visino meraviglioso e una casacata di ricci castani.
Enormi, ovviamente.
No, non i ricci.
^__^

Ad ogni modo, per quanto riguarda la mia passione calcistica, potrei farvi una forbita disquisizione sul mito.
Ad esempio, potrei dirvi che tifare una squadra di calcio è come avere un'idolatria per un cantante. Esagerato comunque, mi risponderanno le voci critiche, ma ciascuno segue una propria mitologia personale. Tifare una squadra di calcio, però, precisiamo, non è effettivamente tifare gli undici giocatori in campo, o tutti quelli della rosa a disposizione dell'allenatore. Non è nemmeno tifare per tutto l'insieme, allenatore e presidente compresi. E' di più. E' tifare per la maglia, per i colori, per un simbolo che tutte queste cose trascende. Un tifoso della Roma, come me, è tifoso sia della Roma di adesso che di quella del primo scudetto. Così un tifoso della Fiorentina come il Deso o un tifoso (ma come si fa!?) della Giuventus (^__-) come Filo.
E' in nome di questa (purtroppo chiamata) fede che ci si possono permettere contestazioni, all'arbitro, al gioco, agli allenatori.
E' una mitologia, con il proprio rituale: che viene celebrato e rinnovato ad ogni partita, ogni settimana. A volte anche più di una volta a settimana. La squadra che gioca è solo una parte di questa mitologia, una parte importante per carità, ma che viene sempre trattata come un pupo di cui si seguono gli sviluppi.
Il rituale vero e proprio, la partita, azzera ogni volta lo stato stabilito dalla partita precedente. Hai vinto domenica? Il sabato dopo non hai la più pallida idea di ciò che sarà.
Come in tutti gli sport in cui si fronteggiano due squadre, o due gruppi, due persone, nella partita riecheggiano gli antichi scontri, i duelli medievali. Il confronto tra due capacità. Vincerà la competenza o la velocità? Vincerà la tattica o la strategia?
Come nell'antico scontro tra Ettore e Achille, ti trovi a parteggiare per l'uno o per l'altro, sapendo che non c'è, in campo, realmente pericolo di morte, ma respirando lo stesso clima esaltante di battaglia epica, di diverse ragioni e diversi diritti. A mio modo di tifare, di pari dignità entrambi.
Un bel gol è un bel gol, e non c'è un cazzo da dire.
Ancora mi bruciano i gol di Signori in un derby con la Lazio che vorrei dimenticare... mi toccò offrire la colazione a Simone il giorno dopo, e la partita l'avevamo lasciata che noi vincevamo e loro erano in dieci...
Ma tornando a noi, potrei dirvi che tifo Roma perché parteggio per Ettore, da sempre.

Ma non voglio dirimere la questione con un'argomentazione così semplice.
No, voglio proprio raccontarvi che tipo di tifoso sono e da dove ha origine il mio tifo.
Giusto per chiarire subito la questione, non sono uno di quelli che ti sanno recitare a memoria la formazione di tutto il campionato, e magari anche di altre squadre internazionali, anno per anno. Non so nemmeno la rosa completa della mia squadra ora!
A malapena so dirti in che anno abbiamo vinto gli scudetti - troppo pochi - e chi ha segnato i gol della settimana scorsa me li sono già scordati.
Eppure...

Eppure se la Roma perde mi girano, e sto male. Eppure quando guardo le partite quando segnano mi alzo e grido come un ululato.
Sono stato una sola volta allo stadio, Olimpico, Roma-Torino, Curva Sud, mitico esordio di De Rossi in campionato che, oltre a Cassano, segnò un gol splendido che se non c'era la rete mi prendeva dritto in fronte. E non finirò mai di ringraziare FdP per avermici portato, regalandomi il biglietto.
Se la Roma vince sono di buon umore, e per tutta la partita, comunque stia andando, soffro, soffro come un cane. Anche perché, diciamolo, ho scelto di tifare una squadra che anche sul 3 a 0 non ti puoi rilassare... ora capite perché dico che tifo Ettore? ^__-
E a chi mi vede in quelle occasioni, è vero, può sembrare strano vedermi in quello stato.

Bene, chiarito che razza di tifoso sono - molti tifosi direbbero 'all'acqua di rose' se non peggio - adesso è il momento di raccontarvi come ci sono diventato.
Alle elementari, in quarta o in quinta, qualcuno mi chiese:

"Sei della Roma o della Lazio?"

Badate bene, non chiese "per che squadra tifi", dava già tutto per scontato.
A me, che del calcio non sapevo e non mi fregava niente, ma che non volevo essere, per così dire, emarginato, necessitava urgente riflessione per far fuoriuscire una risposta importante.
Non sapevo nemmeno di che squadra fosse chi me lo stava chiedendo, quindi neanche a dire che sapevo quale risposta lo potesse compiacere (ma non l'avrei fatto comunque, all'epoca si era un po' più spontanei ^__-).
Così a bruciapelo, mi misi a pensare, e mi venne splendidamente facile.
Roma, città di Roma, la mia città, casa; Lazio, regione Lazio, più impersonale.
Roma, giallo e rosso, colori caldi, accesi, belli; Lazio, bianco e azzurro, freddi, anonimi, senza verve.
Roma, la lupa, animale che già allora mi dava una bella sensazione - o forse era già il mio animale preferito; Lazio, l'aquila... che vabbé, sarà pure un bell'animale, ma se ne sta generalmente da sola, per i cazzi propri e viene pure associata agli aspetti più retrivi del potere (e, sì, magari non in questi termini, ma in quarta elementare c'ero abbastanza vicino a questi ragionamenti! ^_^) e insomma, mi stava un pochettino sul cazzo.
Elementare: tifo Roma.

Questa affermazione è rimasta per almeno un decennio una presa di posizione, un'affermazione di principio e niente più. Se sapevo che la Roma aveva vinto, ero contento, se no me ne fregavo.
Essere tifoso, per me, significava più o meno quello che significa adesso per le persone che si stupiscono del fatto che io sia tifoso - sempre donne, di solito. E dire che ne ho conosciute di belle fomentate del calcio, mitica Anastasia in testa, che quando gioca la Roma rischia ogni volta il coccolone (ed è di Pescara, lei!).
Comunque, più o meno, il concetto allora era tifoso = un pazzo invasato che strilla e sbava appresso a undici cretini in calzoncini che inseguono un pallone che viene tirato dentro una rete. Sai che divertimento...
Eppure...

Eppure, come ho detto, sentire che la Roma aveva vinto - non che vinceva, mai seguito una partita, allora - mi faceva piacere.
C'era, cioè, una parte di me che si emozionava all'idea di partecipare, in qualche modo, anche di striscio, a quella fetta di popolazione - come una grande famiglia espansa - che condivideva con me quella stessa passione.
Anni dopo, al liceo, un gruppo di fascisti non m'avrebbe menato perché portavo addosso qualcosa della Roma. Assurdo. Come in Spagna durante la guerra civile, riconoscersi fratelli tra le barricate.
Quindi c'erano, già allora, i prodromi per quel seme che doveva germogliare.
La passione cresceva mantenendosi nel distacco totale, ma apprezzavo di più i discorsi sul calcio, ad esempio. Perché, diciamolo, un tifoso è tifoso soprattutto perché del calcio si parla. Il gusto fondamentale del tifo calcistico è tutto racchiuso nella chiacchiera da bar.
E' per questo che esistono tifosi che sanno tutto a memoria, perché questo aumenta l'autorevolezza dei loro commenti da bar. Siamo tutti allenatori. Siamo tutti giocatori.

Se alle elementari non mi facevano giocare a calcio perché ero una pippa, alle medie cominciai a prendermi qualche rivincita.
A parte che, nella nostra classe/squadra, avevamo Ilaria Coviello, donna, che era un vero bulldozer del pallone, io - pur relegato a stare in porta o in difesa mentre sognavo di giocare da libero o da ala - cominciavo ad imparare a giocare.
E per uno che tifa sapere le regole del gioco è chiaramente fondamentale, ma ancor di più lo è sapere cosa si prova a stare in campo. Correre, risparmiare il fiato, spendersi in difesa o prendere e dare passaggi, smistare palloni, lo spirito di squadra, richiamare l'attenzione dei compagni...
Io, il mio primo momento di gloria calcistica, l'ho avuto da portiere.
Ho sempre, anche ora, avuto paura di farmi male per una pallonata. In particolare di rompermi le dita (Fabio Spaghetti si ruppe un braccio in rovesciata, ad esempio), quindi non ero questo granché di portiere. Ma quel giorno eravamo una seconda contro una terza, e il tizio che mi venne di fronte col pallone mi stava abbondantemente sul cazzo. Non so, forse fu per questo che - incapace allora come adesso di fare una vera parata - lui tirò ed io respinsi la palla, finendo a terra. Lui la riprese al volo e tirò ancora, ed io con uno scatto di reni mi allungai e la respinsi di nuovo. E lui ancora la stoppò e tirò di nuovo, mentre la difesa tornava e con lei gli attacanti, e la squadra avversaria, tutti. Respinsi di nuovo, sempre finendo a terra. Con le mani, col ginocchio la gamba, io respingevo e lui tirava. Ed io mi accorgevo che tutti quelli che stavano tornando, o correndo verso di me, rallentavano, si fermavano.
Tutti dietro di lui, paonazzo di rabbia, frustrato, che continuava a sparare sassate dirette iin porta, porta che io, gasato come non mai dalla straordinaria combinazione, paravo - pardon, respingevo - nenache fossi stato Gato Diaz de 'Il rigore più lungo del mondo' di Osvaldo Soriano.
Alla fine segnò, ma ero io, la pippa, quello che aveva vinto.

E' anche questo il bello del calcio.
Quello che mi fa amare Damiano Tommasi, calciatore che segnò il suo primo gol dalla metà campo, sorprendendo a parabola il portiere avversario, che era fuori dai pali.
Chiunque avrebbe detto "l'ho visto fuori dai pali e ho tirato". Soprattutto nel calcio di adesso.
Lui no. Serafico, ammise: "boh, io veramente ho crossato" - non c'era nessuno davanti, a chi cazzo aveva crossato?! - "poi se la palla è entrata... bene così!".
Forse adesso non c'è più, un calcio così.
Sono finiti - ma io testardo spero che tornino - i tempi di un 'Sindacalista del Calcio' come Bergomi - credo fosse lui - che quando segnava non esultava mai, "per rispetto ai colleghi che il gol l'hanno preso".

E proprio Soriano mi offre l'occasione di citare ciò che ha cementato la mia passione calcistica.
Ad esempio, lo spettacolo "Tacalabala", da un'espressione di Helenio Herrera.
Che racconta momenti in cui il calcio diventa poetico, e tocca il sublime, nel racconto che si fa della triste festa del campione portoghese che dava l'addio alla professione, e che invitò i suoi amici, il Grande Torino, a disputare una partita celebrativa. Un gioco sull'assenza, in cui una persona parla, ma altre due non la sentono, come se non esistesse.
Ma sono quei due, a non esistere. Perché sono loro, atleti del Grande Torino di allora, ad essersi schiantati, il 4 maggio 1949, sulla collina di Superga, nel viaggio di ritorno.
E l'Inghilterra, da cui mi viene questa ultima richiesta di chiarimento, patria del Manchester Utd. che affronteremo in aprile in Champions League con tanti, tanti patemi perché sono avversari terribili, e ancor di più Londra, casa dell'Arsenal, chiamano a gran voce "Febbre a 90°", film che ho amato, tratto da un libro che risulta noiosissimo per i non fissati (me compreso) a causa delle continue citazioni di formazioni e partite. Un film imperdibile, sull'argomento. Che - solo con la scena verso il finale in cui lui, nonostante la finale dell'Arsenal sia in atto, deve scegliere se scendere da lei o non staccarsi dal televisore, per chiudere poi in un modo geniale - insegna quali spazi esistono per amare quelli che amano il calcio e quali limiti biosgna avere nell'amore per il calcio per poter amare...
E ancora, restando al cinema, l'imperdibile Gassman (Vittorio) ne "I mostri", episodio "Che vitaccia!", ma SOPRATTUTTO ne "L'Arcidiavolo"...
Non ve lo posso spiegare... in quella scena c'è tutto quello che per me è la passione per il calcio. Per me, che da mezza schiappa sono arrivato a sapermela cavare - e anche a giocare da libero, pur arretrato in difesa - e persino a segnare, e un sacco di volte!, quel suo strillo "Pallaaaaa!!!" quando fino a un secondo prima faceva il sostenuto con una ragazza, sostenendo che il pallone era un'invenzione senza futuro... ecco, è perfetto.

Ed è così che sono approdato al tifo vero per il calcio.
Sull'onda di un entusiasmo via via più autocompiaciuto per le vittorie della mia squadra, che hanno cementato un senso di appartenenza a una bandiera, e delle partite a calcetto giocate con gli amici (tra cui una mitica sconfitta 16 a 13 per gli avversari ottenuto su campo in terra sotto il diluvio universale dopo una partita di due ore, in cui i terzini sparivano inghiottiti dalle pozzanghere e i difensori segnavano entrando in scivolata da davanti la loro porta, ed io ero il più piccolo d'età) ho cominciato a interessarmi alle partite.

E il passo definitivo è stato seguire "Quelli che il calcio", ovviamente quando c'era Fazio.
Un modo garbato, intelligente e gradevolissimo di seguire tutte le partite, non solo la propria squadra, e innamorarsi dello sport in sé, del gioco, dell'agonismo. Di entusiasmarsi per una particolare azione, una prodezza, un'acrobazia. Per godere come un riccio nel vedere Mastandrea e Paolantoni compiere ogni scaramanzia. Nel vedere Verdone soddisfatto di aver portato il figlio allo stadio e aver 'fatto vincere' la Roma. Ma soprattutto, soprattutto, nel vedere il premio nobel DULBECCO, alzarsi di scatto a 90 anni suonati e gridare "GOOOLLL!!! GOOOLLL!!!" per un vantaggio del Genoa!
^__^
E' stato lì, in quel preciso momento, che sono diventato il tifoso che sono.
L'equazione tifoso = buzzurro era caduta. Non aveva più senso di esistere.
Il calcio esalta, avvince, esoricizza, condanna, purifica, fa sentire vivi, socializza, entusiasma, e negarlo non ha senso. In tutte le declinazioni non violente in cui si presenta.

Adesso mi diverte vestire giallorosso. Mi piace portare la sciarpa della Roma.
Nella festa dell'ultimo scudetto sono andato a buttarmi nelle fontane di Piazza del Popolo con gli altri, e a due turisti inglesi con la bandiera della Roma sulle spalle che mi chiedevano preoccupati se potessero incappare in qualche problema ho risposto "tu, co' quella, oggi pòi annà dove te pare!". E quel giorno comprai bandiera e trombetta, e mi precipitai a Piazzale degli eroi dove, l'anno prima, al terzo piano c'era esposta una bandiera della Lazio lunga due piani. Ed era gustosissimo vedere che eravamo in cento, tutti a faccia in su, verso quelle persiane chiuse.
Perché le stecche (quelle con le dita) all'avversario fanno parte del gioco.
Adesso mi piace tenere sul lunotto della macchina un drago cinese giallorosso con su scritto "chi de 'sta Roma borbotta è 'n gran fijo de 'na m...".
Adesso ho anche composto un inno per la Roma, cambiando le parole di Jeeg Robot D'Acciaio.

Perché il calcio è uno sport che va giocato col cuore. Col senso di squadra.
Proprio quello che ci mette Damiano Tommasi, anche se è uscito dalla mia squadra del cuore.
Perché non tifavo Italia, schifato dall'individualismo dei supercampioni alla Del Piero e alla Roberto Baggio prima maniera (un giocatore che ho adorato dopo che si è trasformato, giocando nel Brescia). Persino del Totti prima maniera. Perché preferivo un Nakata e un Batistuta, che era figlio del migliore amico dello zio di un mio amico, detto il Papa. Che abbiamo seriamente rischiato di averlo come straniero a una partita di calcetto. E non tifando Italia contro la Nigeria, che preferivo (ah, le squadre africane... ah, la vittoria del Senegal sui galletti francesi...), fui vittima di un cappottone storico a quel maledetto rigore segnato al 90°. Che per andare a vedere la partita guardavo l'orologio in attesa di sostenere l'esame di Economia Politica... dove tra l'altro presi un 28.
Perché ho tifato Italia come uno sfegatato nei successivi mondiali, in cui c'era un'impronta forte della Roma, pur continuando a non digerire del Piero.
Perché il calcio unisce, e non divide, quando è pulito e ben giocato.
Perché giocare a calcio, su un campo di calcetto, fa bene all'anima.
Ed io lo so, perché ci son passato.

Rimane da parlare delle tette.
Non me ne vogliate, ma sono le tre e mezza di mattina, e domani - oggi, per voi che leggete - devo anadare a lavorare.
Vi dirò brevemente le due cose che mi erano venute in mente.
Ok, ok, non sono quelle due.
La ragazza di oggi sembrava dolcissima. E portava la sesta, minimo.
Adesso, le tette grandi devono essere ben portate, ma, ad ogni modo, mi son convinto di una cosa. Le tette obnubilano.
Insomma, noi maschi abbiamo dei criteri, selezioniamo, ma di fronte ad un bel paio di tette, improvvisamente i conti si azzerano. Sul piatto della bilancia, quella massa di carne materna e accogliente, quei cuscini su cui sognamo di sognare contano più di tutto.
I sensi si azzerano e, se proprio non sei una cozza terrificante, come quella di cui canta Greg (di Lillo&Greg), i tuoi difetti ti saranno perdonati. Anzi, a dire il vero proprio non li vediamo.
Sul perché o sul percome discuteremo un'altra volta, magari, se volete. Ma credo che questa sia un'innegabile verità: più del culo o di qualsiasi altra parte del corpo, le tette sono un vero e proprio richiamo animale.
Dunque, ragazze, se avete tette, mostratele.
Perché sono proprio una gioia anche solo a vedersi. Mettono allegria.
Anche senza toccare.
Su certe tette, starebbe bene una maglietta con su scritto
"Io sono la luce, voi le FALENE".

^__^

GrimFang

Nessun commento: